Il nostro amore per quegli agnellini era diventato qualcosa di così ossessivo, che i miei genitori, che non sopportavano più l'assillo, decisero di comprarci (a me e ad Imix, che era di turno a casa mia) un bell'agnellino. Lo tenevamo in giardino, legato ad un tronco con un lungo, lunghissimo filo. Quando lo andavamo a trovare, infatti, io ed Imix uscendo da casa ci trovavamo subito di fronte il tronco, poi, da lì, invece di seguire le cacche come eravamo soliti fare, seguivamo il filo. Venne naturale chiamare quell'animaletto Arianna. Lo abbracciavamo, lo baciavamo. Lo adoravamo. Era un agnellino clonato, geneticamente modificato. Fino all'ultimo rimase sempre piccolo, non divenne mai una pecora o un ariete o un irco - ci mancava! - o un montone o chissacosaiddio divengano gli agnelli geneticamente non modificati, da adulti, quando possono. Dal momento della nascita fino a quello della morte, fu sempre quello che era, come era stato il suo pater-clone e come furono tutti i suoi fratelli-cloni sparsi per il mondo, compresi, forse, perché no, quelli che vedevamo passare con quell'uomo. Tutto questo gruppo di animali era più di una famiglia, di un parentado. Erano tutti lo stesso grande essere, frantumato e distribuito all'interno di innumerevoli corpi... Ma Arianna era di Akbar, riconosceva me, e Imix, e i miei genitori, e il mio odore, le mie carezze, la nostra voce. Gli altri agnellini, no. Nessuno di quelli della mia generazione vide mai cosa potesse diventare quell'animale, invecchiando. Forse non eravamo della stessa razza anche io ed i miei amici? O forse, semplicemente, non siamo tutti così? Può essere. Ora però sento - oggi - di appartenere ad un'altra grande, nuova famiglia, invisibile, inconoscibile. Sterminata. Senza avere - davvero - nessun'idea di come mi ci sia apparentato. Senza poter aver nessun rapporto con gli altri esponenti di questa mia nuova specie, ognuno dall'altro lontano come le stelle. Qui fuori, nel gelido spazio... Per vederle (le stelle) salivo su di una torre. Svettava, maestosa, incomprensibile, sopra alla nebbia. Era accessibile solo di notte. Non era permesso, né consigliabile, esporsi al sole. Spazzata da un vento continuo, teso, che sembrava spingere la luna aldifuori del cielo, era uno dei miei rifugi. Era il mio covo. Nascosto. Alla luce. Che fu.
Il nostro amore per quegli agnellini era diventato qualcosa di così ossessivo, che i miei genitori, che non sopportavano più l'assillo, decisero di comprarci (a me e ad Imix, che era di turno a casa mia) un bell'agnellino. Lo tenevamo in giardino, legato ad un tronco con un lungo, lunghissimo filo. Quando lo andavamo a trovare, infatti, io ed Imix uscendo da casa ci trovavamo subito di fronte il tronco, poi, da lì, invece di seguire le cacche come eravamo soliti fare, seguivamo il filo. Venne naturale chiamare quell'animaletto Arianna. Lo abbracciavamo, lo baciavamo. Lo adoravamo. Era un agnellino clonato, geneticamente modificato. Fino all'ultimo rimase sempre piccolo, non divenne mai una pecora o un ariete o un irco - ci mancava! - o un montone o chissacosaiddio divengano gli agnelli geneticamente non modificati, da adulti, quando possono. Dal momento della nascita fino a quello della morte, fu sempre quello che era, come era stato il suo pater-clone e come furono tutti i suoi fratelli-cloni sparsi per il mondo, compresi, forse, perché no, quelli che vedevamo passare con quell'uomo. Tutto questo gruppo di animali era più di una famiglia, di un parentado. Erano tutti lo stesso grande essere, frantumato e distribuito all'interno di innumerevoli corpi... Ma Arianna era di Akbar, riconosceva me, e Imix, e i miei genitori, e il mio odore, le mie carezze, la nostra voce. Gli altri agnellini, no. Nessuno di quelli della mia generazione vide mai cosa potesse diventare quell'animale, invecchiando. Forse non eravamo della stessa razza anche io ed i miei amici? O forse, semplicemente, non siamo tutti così? Può essere. Ora però sento - oggi - di appartenere ad un'altra grande, nuova famiglia, invisibile, inconoscibile. Sterminata. Senza avere - davvero - nessun'idea di come mi ci sia apparentato. Senza poter aver nessun rapporto con gli altri esponenti di questa mia nuova specie, ognuno dall'altro lontano come le stelle. Qui fuori, nel gelido spazio... Per vederle (le stelle) salivo su di una torre. Svettava, maestosa, incomprensibile, sopra alla nebbia. Era accessibile solo di notte. Non era permesso, né consigliabile, esporsi al sole. Spazzata da un vento continuo, teso, che sembrava spingere la luna aldifuori del cielo, era uno dei miei rifugi. Era il mio covo. Nascosto. Alla luce. Che fu.