L’ONORE E IL SACRIFICIO
Fissazioni ataviche dell’autoritarismo al tempo del regime dei banchieri
tratto dall’ultimo nero del Seme Anarchico
Nel pensiero autoritario, sin dalle sue origini più profonde, giocano un ruolo fondamentale i concetti di “onore” e di “sacrificio”. L’onore per la tribù, per la patria, per l’esercito… Dal concetto di onore discende direttamente il concetto di sacrificio: la tribù che fa il sacrificio umano, l’estremo sacrificio per la patria, ecc.
Interessante, sul piano socio-antropologico prima che politico, osservare come tali concetti si adeguino ai tempi che corrono. Il nuovo totem da onorare e per cui sacrificarci è divenuto il debito pubblico. Le modalità propagandistiche si fondano ideologicamente proprio su questi concetti atavici dell’autoritarismo. La stampa borghese (di destra, di sinistra, di centro, “tecnica” come oggi va di moda) ci martella quotidianamente le palle con la manfrina che “dobbiamo onorare il debito”, pertanto che “tutti siamo chiamati a fare sacrifici”. Onore-sacrificio sono una coppia concettuale indivisibile e legata deduttivamente: il sillogismo è che, se non si fanno sacrifici, si perde l’onore.
Eppure la stessa morale borghese dovrebbe interrogarsi intorno al dogma dell’onorabilità del debito. Infatti, la propaganda perbenista – per dire – della Confindustria, delle associazioni padronali dei commercianti, ecc., ci insegna che non va pagato il pizzo alla mafia, che vanno denunciati gli usurai. Il Sole 24 Ore non si sognerebbe mai di fare una campagna dal tema: “onora il debito con l’usuraio”.
Il debito, quindi, non va pagato. Non è il nostro debito. E’ il debito di uno Stato che da sempre rigettiamo e che oggi più che mai è diventato un orribile parassita, un mostro che vive sulle spalle della gente che assoggetta, depredandola e utilizzando il frutto della rapina per alimentare il sistema scellerato della finanza. Dell’onore dello Stato ce ne freghiamo: non saremo noi i sacrifici umani da sgozzare sull’altare del dio della finanza.
Per gli anarchici e per il movimento rivoluzionario si aprono prospettive drammatiche, ma di svolta. Se dobbiamo fare un paragone col passato, mi viene in mente più che le rivoluzioni del Novecento, la Comune di Parigi, anche se su scala globale. Cioè mi viene in mente uno Stato che si suicida e un popolo che prende in mano la società e la gestisce finalmente dal basso. Ma i paragoni col passato sono sempre un po’ azzardati. Secondo me la storia non si ripete mai nelle stesse forme.
Certamente siamo di fronte ad un passaggio epocale. Ci hanno raccontato la balla del capitalismo democratico. La democrazia liberale, per il capitalismo, è solo uno dei possibili modi di organizzazione della società. In passato e ancora oggi in molte aree del mondo, abbiamo forme di governo dittatoriale. Oggi, anche in Europa, viviamo una rottura fra il capitalismo e le regole della democrazia liberale. In Grecia e in Italia per la prima volta i governi politici sono stati sostituiti da regimi diretti, non più dietrologicamente, ma proprio in prima persona, alla luce del sole, da banchieri. Il rito atavico dell’onore e del sacrificio è gestito in prima persona da guru del capitalismo bancario: quando la democrazia liberale non è stata più in grado di onorare il totem della finanza, a scannare l’agnello sacrificale (che poi saremmo noi) è sorto il regime dei banchieri.
Io non sono mai stato un determinista: ritengo che questa situazione può portare a svolte antiteche, sia a forme di nuovi e più rigorosi autoritarismi, sia a prospettive insurrezionali diffuse, forse perfino rivoluzionarie. Dipende anche da noi.