A volte ti ritrovi senza parole; è così e basta, e non c’è una causa precisa per questo fenomeno. Qualcuno potrebbe dirti che se tu la cercassi, sicuramente una causa la troveresti; ma tu sai bene che non c’è. Sei senza parole e basta. E non intendo le parole da scrivere, né quelle da pronunciare, intendo le parole dentro, quelle che di solito appaiono invisibili attorno alla tua testa come fumetti di cartone o di vapore. Non ci sono. Scomparse. Provi allora a sondare il tuo cuore, a indirizzargli la tua attenzione, per cercare di capire se dal tuo petto esca un raggio di calore, ma ti sembra di avere una spugna indurita, e sai benissimo che quella del cuore di pietra è una metafora troppo sfruttata fin dall’albore dei tempi, ma è proprio così che ti senti: con un sasso in fondo alla gola. In genere, quando eri giovane, ogni volta che ti accorgevi di non avere più l’anima, ti veniva da piangere; e le lacrime, colando sulle guance e nell’incavo tra le orecchie e le spalle, servivano a schiudere di nuovo la serratura serrata delle emozioni. Ma ora, che non sei più un poeta, questo non accade. Qualcosa ti distrae da fuori la finestra, e ti chiedi se la foglia si sia mossa apposta per salvarti; per salvarti da te stesso e dai tuoi miseri pensieri; ma non ti sai rispondere, perché sarebbe troppo presuntuoso pensare che ci sia una provvidenza là fuori, che fa accadere le cose per te; certo sarebbe bello se così fosse… ma sei più ateo di quanto tu stesso immaginassi. E ti rendi conto che da troppo tempo non ascolti parole su Dio, e ti rendi conto che ti manca qualcosa. Ma come ci si può accostare a Dio se non si ha più un cuore che senta o che possa assorbire amore? Forse il problema è che un cuore può assorbire amore solo quando ne dà. E’ una cosa strana, lo so, è un concetto astruso. Ma ti accorgi di credere fermamente in questa massima. E ti condanni definitivamente alla distanza. E il cielo non si lascia intravvedere oltre la siepe del vicino che imperterrito prende il sole non occupandosi dell’anima, né del cuore, né di ciò che si è dentro. E allora ti dici che forse sei più vicino di quanto tu pensassi all’avere un’ anima , perché non hai raggiunto quell’infimo livello di chi nemmeno si interroga. Ma chi non si pone domande non sta di certo male come te; perché non può vedere l’abisso che ha dentro. E per un attimo vorresti essere il palestrato di turno con la lampada appena fatte le gambe perfette, privo di senso o di qualsiasi ricerca di un senso, ma vivo. Perché la tua esistenza ti appare in bianco, superflua almeno quanto i suoi peli. Ma stai andando fuori strada; ti stai inacidendo; e ti accorgi che hai un lapsus e non ricordi più a cosa stessi pensando quando il tuo pensiero è iniziato. Alzi le spalle e sospiri. E’ l’ora del tè.