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L’organizzazione e la gestione del quotidiano in una comunita’ alloggio: la competenza psicoterapeutica quale strumento

Creato il 23 ottobre 2011 da Raffaelebarone

di Adele Chiara D’Anna

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Premessa

Le Comunità Alloggio sono strutture residenziali per soggetti con disagio psichico.

Sono state  previste dalla legge 180 del 1978, la cosiddetta legge Basaglia, che di fatto ha sancito la chiusura dei manicomi ed ha concepito  la riorganizzazione dei servizi psichiatrici,  e sono state attuate grazie alla  legge regionale N. 22 del 1986.

Sono pensate come piccole strutture ( 8/10 utenti) con una organizzazione interna simile a quella di una normale casa (tempi, routine quotidiane) e dovrebbero essere inserite all’interno di un contesto urbano al fine di favorire l’integrazione sociale dei soggetti che vi abitano.

In Sicilia sono circa  200, ospitano quasi  2000 pazienti e vi lavorano1500 operatori. Nella provincia di Catania secondo l’apposita sezione dell’elenco dell’Albo regionale ne sono state attivate più o meno una quarantina.

La questione della organizzazione e gestione della quotidianità del vivere all’interno di una Comunità Alloggio è una questione chiave che consente di discriminare tra residenze che fanno assistenza, cioè che si prendono cura del soggetto con disagio psichico sul piano dei bisogni materiali (dare un tetto, cibo, medicine ecc.) e residenze che hanno la tensione ideale di curare le persone che vi abitano  e cercano, quindi,   quotidianamente di concepirsi e organizzarsi come un setting nel quale pensare e avviare percorsi di cura che possano far  guarire  il paziente.

Il rischio grande è infatti che le Comunità Alloggio, anche se inserite nei centri storici delle città, anche se si presentano come degli appartamenti molto belli e ben arredati si configurino come dei “Minicomi” ossia dei manicomi più piccoli ma non per questo meno aggressivi  in quanto dispositivi incapaci di una reale prassi terapeutica.

Tale dicotomia è purtroppo generata da una ambiguità che si articola tra il piano formale/normativo e quello sostanziale operativo. La normativa che regolamenta le Comunità Alloggiole definisce strutture socio-assistenziali per pazienti psichiatrici stabilizzati. Tradotto in una dimensione operativa  viene detto che la dimensione della cura  non è di pertinenza di tali  strutture, e infatti in organigramma non sono previste figure come psicologi, psicoterapeuti o terapeuti della riabilitazione ma un assistente sociale e operatori sociali.

Ma se le cause dei disturbi psichiatrici gravi  come ormai a livello mondiale è stato appurato sono bio-psico-sociali……….., chi si fa carico della dimensione psico-socio-relazionale del paziente che vive all’interno della comunità alloggio, dimensione  che da forma a tutto il suo comportamento all’interno e all’esterno della comunità? Ovvero chi la legge, la interpreta e predispone dei dispositivi di cura proprio di tale dimensione?  Le Comunità Alloggio sono dunque strutturate dalla normativa come strutture assistenziali ma in realtà l’ oggetto di assistenza è una persona con disturbi psichiatrici che necessita un ambiente di cura della propria dimensione psicosociorelazionale.

Fare assistenza per le comunità alloggio equivale a  fare quello che vien prescritto dalla normativa ne più ne meno; il problema è allora su un altro piano, quello etico/morale e  nasce quando ci si rende conto, lavorando quotidianamente, che l’assistenza non può che essere il primo gradino del prendersi cura del paziente e che per non creare, appunto, dei minicomi è necessario che la Comunità Alloggio funzioni come un vero e proprio dispositivo di cura, un vero e proprio ambiente di cura, della dimensione psico-socio-relazionale del paziente.

Bisognerebbe, allora uscire fuori da questa situazione che crea una ambiguità tra l’identità formale/istituzionale e quella reale che alcune comunità cercano di crearsi, ambiguità che crea confusione e poca chiarezza anche sul piano delle richieste e  delle aspettative relative alla dimensione operativa sia all’interno della stessa comunità (da parte dei pazienti, dei famigliari, degli stessi operatori nei propri confronti) sia all’esterno da parte del sociale,del D.S.M. degli enti locali. Superare tale ambiguità significherebbe  modificare la normativa ossia citando un articolo del  Dott. Caraci pubblicato sulla rivista “Salute e Territorio”-  Anno 2 numero 5 Gennaio – Aprile 2003 “…..sarebbe necessario un provvedimento regionale che rimodulando la gestione e l’erogazione delle prestazioni residenziali  …….  su basi modernamente gestionali rinomini a distanza di venti anni tali presidi in strutture intermedie sanitarie (a me sembra più utile definirle e concepirle più ampiamente come terapeutiche) liberando a cascata risorse comunali che potrebbero essere utilizzate per altro….” ad esempio per i gruppi appartamento o per l’holding domiciliare. Alcune indicazioni contenute nel Piano Sanitario Regionale sembra che aprano alcuni spiragli verso questa possibilità ma a tutt’oggi si è ben lontani dalla concreta realizzazzione di tale riconfigurazione.

Chiusa tale premessa che rende ragione della grande eterogeneità di tali realtà ritorniamo all’argomento in questione. Io svolgo il ruolo di responsabile per una delle Comunità Alloggio Insieme di Catania  dal 2003. Fino a un anno e mezzo fa la comunità (aperta nel 1999) si trovava in una dimora del 900 in via Duca degli Abruzzi nel quartiere popolare di picanello.  Adesso si è trasferita in via Tripolitania, una traversa di corso delle provincie, una zona abitata da soggetti in prevalenza di ceto medio-alto. Dopo un iniziale periodo di diffidenza legato alla paura che gli abitanti della comunità potessero essere pericolosi il condominio e l’intero quartiere  hanno incluso la struttura.

In quanto responsabile la domanda che ogni giorno fa da guida al mio operare è come utilizzare a partire dal vertice del mio ruolo operativo  le mie conoscenze e competenze di psicoterapeuta gruppoanalista? E inoltre, consapevole che senza una teoria della persona, della malattia e della guarigione della persona (Fasolo) non può essere attuata alcuna pratica di cura, come adattare tale bagaglio teorico/clinico allo specifico contesto di lavoro  tenendo conto sia dei suoi limiti sia delle sue risorse?

A tal proposito mi è stata molto utile la riflessione teorica di Pontalti che concepisce la competenza psicoterapeutica nei termini di Funzione e in quanto tale da poter utilizzare non solo e semplicemente per la costruzione di un set/ting psicoterapeutico classico (individuale, gruppale, famigliare ecc.) ma come un vero e proprio strumento da usare per la regia complessa del lavoro  all’interno della Comunità o meglio attraverso la comunità alloggio (poiché entrano in gioco e vengono appunto attraversati anche soggetti e contesti esterni come avrò modo di dire in seguito.).

Le conoscenze e le competenze psicoterapeutiche vanno dunque concepite e usate per pensare, organizzare e mettere in pratica azioni e dispositivi volti alla cura del paziente; tali azioni devono declinarsi sia nella quotidianità sia in un arco temporale di  medio e di lungo termine e sia all’interno della residenza sia all’esterno di essa e quindi attraverso essa.

Emerge a questo punto un’altra questione chiave, come  concettualizzare e definire questa modalità di lavorare ? Dal confronto e dalla riflessone teorica che si sta sviluppando tra professionisti che lavorano all’interno di contesti istituzionali con soggetti affetti per l’appunto da disturbi psichici gravi o con adolescenti (dott. Bellia, dott.ssa Russo, dott. Barone) è emerso il concetto di “psicoterapia diffusa”.

Cos’è la psicoterapia diffusa?  Estendendo e allargando la posizione clinico-concettuale di Pontalti che parla di costruzione di un campo terapeutico e di molteplici territori della cura e gruppalità di contesti di cura, l’operazione di psicoterapia diffusa è una continua operazione di costruzioni di reti di cura (sia all’interno che all’esterno della comunità alloggio) attraverso una co-progettazione che deve coinvolgere più soggetti (gli operatori sociali, le diverse figure professionali del dsm, il paziente, la sua famiglia, l’intera comunità locale).

Le prassi terapeutiche per essere realmente tali  con alcune tipologie di pazienti e nello specifico con i pazienti psichiatrici, devono necessariamente essere multicontestuali e multisoggettuali devono prevedere dia-logo, confronto, co-progettazione.

Il curante è allora colui che, avendo non solo le adeguate competenze psicoterapeutiche ma anche un bagaglio teorico che gli permette di vedere la complessità delle dimensioni in gioco nella malattia psichiatrica e quindi nella sua cura, si assume la Responsabilità della cura del soggetto all’interno di una dimensione plurale multiprofessionale  e multicontestuale; il curante è colui che deve co-costruire e tenere le fila di una serie di interventi, dispositivi, e di set/ting attraverso i quali si propone di incontrare il soggetto con il suo disagio, nella pluralità delle dimensioni nelle quali si svolge la sua esistenza.

La cura del paziente psichiatrico necessita, quindi, di  un ripensamento e adattamento del bagaglio teorico/tecnico classico della psicoterapia.  Le cause dei disturbi psichiatrici e quindi la possibilità della loro comprensione implica, infatti, un campo ampio e complesso di livelli e dimensioni (biologico-sociale-psicologico; soggettivo, famigliare, gruppale ecc.).

In questa prospettiva la gruppoanalisi, intesa come “pensiero operativo collegato al paradigma della complessità e alla relazione” (Lo Verso, Federico, Lo Coco, 2000) ci permette di avere un pensiero gruppale rispetto alla nascita della soggettualità, alla psicopatologia e quindi alla sua cura.  In altri termini, il vertice gruppo-analitico ben si presta a guardare la persona nella sua complessità e le prassi terapeutiche in termini di una operazione complessa di costruzioni di reti cura e di relazioni e non semplicisticamente come sequenza/giustapposizione di interventi (farmacoterapia, psicoterapia, sostegno abitativo, esperienze di socializzazione, inserimento lavorativo ecc.).

Nell’ottica della “psicoterapia diffusa” (ibidem) l’interlocutore oggetto/soggetto della psicoterapia non è l’individuo, bensì il soggetto con i suoi sistemi di relazioni, e soggetto della psicoterapia non è l’individuo  psicoterapeuta bensì il soggetto curante che attiva il sistema di cura. Il soggetto curante è quel nodo della rete di cura che fa da snodo,  che attiva cioè altri nodi; nodi ufficiali che fanno già parte del sistema di cura e nodi non istituzionalmente deputati alla cura ma che possono svolgere tale funzione, se la loro attivazione è pensata in tali termini. Il compito complesso della “psicoterapia diffusa” pone, quindi, un problema di epistemologia della cura, un problema di analisi delle dinamiche istituzionali e di formazione del personale.

Qual è, allora, ci si potrebbe chiedere, la differenza tra un intervento di psicoterapia diffusa e un intervento di case-management? Nel caso di un intervento di psicoterapia diffusa, ad essere utilizzate e reinvestite al di la della strutturazione di un setting classico, e per la creazione, quindi, di articolate reti di cura, sono le conoscenze e le competenze psicoterapiche ( il modello teorico/epistemologico, la teoria della persona del suo sviluppo e della psicopatologia, la teoria della tecnica).

Ritornando  al mio lavoro quotidiano, una delledifficoltà maggiori con la quale mi confronto è il continuo movimento affettivo, cognitivo, operativo/decisionale che devo operare fra i vari livelli: quello individuale, (operatore, paziente, dirigente, psichiatra, psicoterapeuta, famigliare ecc.) quello di gruppo (gruppo operatori, gruppo pazienti, gruppo operatori/pazienti), quello di una dimensione più collettiva (l’ente locale, le altre comunità alloggio del territorio, il DSM, le risorse e i vincoli del territorio di Catania ecc.).

Le direttrici del mio operare sono la creazione di reti di relazione all’interno della comunità fra operatori, fra utenti, fra operatori e utenti; all’esterno con il dipartimento di salute mentale che è il committente sanitario e che è istituzionalmente deputato alla cura psichiatrica e psicoterapeutica dei pazienti, e con la comunità locale (il comune in quanto committente economico; le parrocchie, le cooperative sociali che si occupano di inserimento lavorativo, le associazioni).

Le finalità del mio intervento, raggiungibili, attraverso il conseguimento di obiettivi particolari  sono:

favorire il senso di appartenenza ad un gruppo (sia da parte degli utenti, sia da parte degli operatori) attraverso lo sviluppo di legami di sostegno (emotivo/affettivo; materiale; informativo ecc.);

favorire l’evoluzione del gruppo di operatori in  un “gruppo di lavoro”.

contribuire alla co-costruzione interdisciplinare di dispositivi gruppali di cura (lavoro in rete con il DSM e il territorio);

contribuire alla promozione della autosostenibilità (Trevisiol, 1996 cit. in Fasolo, aprile 2005) del paziente favorendo lo sviluppo di relazioni di interdipendenza caratterizzate da coinvolgimento, partecipazione, reciprocità all’interno e all’esterno della comunità;

favorire lo svincolo e l’appartenenza alla comunità locale (concepiti come meta ultima del percorso del paziente);

Gli strumenti che si pongono alla base di tali prassi sono:

la relazione, che grazie al lavoro di formazione continuo del gruppo di operatori, sta transitando da una dimensione semplicistica di  rapporto umano a consapevole strumento clinico (capacità di riconoscere il potente effetto di quello che diciamo e non diciamo, di quello che sentiamo in termini co-trasferali,  dell’intenzionalità inconsapevole che  etc.);

il progetto individualizzato, che viene scritto e aggiornato periodicamente; concepito in termini non saturi ne saturanti, in una dimensione sempre aperta del “tempo del comprendere”  (Pontati, 1998);

il gruppo. In comunità viene svolto un gruppo di supervisione/formazione permanente del personale, una volta a mese condotto da uno psicoterapeuta gruppoanalista; per svariati anni vi è stato un gruppo di supervisione per responsabili di comunità (al quale partecipavodiversi responsabili di altre comunità del territorio), anch’esso era a cadenza mensile e con identica conduzione; una riunione di comunità con operatori e pazienti, condotta dal presidente della cooperativa che gestisce la comunità.

Dello strumento gruppo ne parlerà ampiamente il dott. Bruschetta nel suo intervento quello che a me interessa  sottolineare  quì , è invece la mia scelta di valorizzare quotidianamente,  a fianco dei momenti cosiddetti istituzionali del gruppo, i momenti informali del gruppo dei pazienti ossia, quelli che Saraò definisce gli spazi interstiziali o i momenti routinari caratterizzati da una dimensione gruppale (quali ad esempio il momento in cui si prende il caffè il pomeriggio o il momento del pranzo)con l’obbiettivo di favorire una elaborazione continua dell’accadere quotidiano, di discussione collettiva dei problemi  e di progettazione di cose da fare insieme. Così più volte a settimana pranzo insieme agli utenti; al pranzo sono presenti anche due operatori. Questa routine, che è il  momento conviviale per eccellenza all’interno della nostra cultura, diventa, all’interno di una dimensione famigliare “come se”, un set nel quale poter discutere l’andamento della casa, ridefinire alcune regole, affrontare problemi relazionali,  prendere decisioni comuni, proporre cambiamenti. Il pranzo diventa un setting: un rito che consente processi di mentalizzazione. Qualcuno dei pazienti, inizia raccontando quello che ha fatto durante il giorno, narra la sua quotidianità. Spontaneamente, gli altri lo seguono a turno.

Ho potuto osservare che da quando c’è questo spazio/tempo di elaborazione gruppale dell’accadere quotidiano, nelle riunioni mensili gli eventuali conflittisono più gestibili e i temi che i pazienti fanno emergere sono per lo più relativi ad una dimensione progettuale a medio e lungo termine, sia personale che di gruppo (ritornare a casa per il fine settimana, progettare, uscite, gite o le vacanze ecc.) ed è meno frequente l’assunzione di una posizione difensiva sia da parte di operatori sia da parte degli utenti si è tutti più aperti al confronto e allo scambio.

Anche all’interno del gruppo di noi operatori, al fianco dei momenti istituzionali di formazione e supervisione ho ritenuto opportuno  valorizzare e potenziare due strumenti quotidiani di lavoro: lo spazio/momento dello scambio di consegne al cambio turno e il cosiddetto diario di bordo, il quaderno sul quale si registrano gli avvenimenti della giornata.

Per quanto riguarda lo spazio/momento dello  scambio di consegne, è un momento di confronto quotidiano che coinvolge generalmente quattro o cinque operatori, quelli che hanno finito il turno del mattino e quelli che dovranno effettuare quello pomeridiano. Ha la durata di circa tre quarti d’ora ed è un momento di riflessione su quello che è accaduto durante la mattinata e di programmazione del pomeriggio, ed ha l’obiettivo di coniugare pensiero e azione nel qui ed ora della situazione.

Narrare, a più voci, quello che è accaduto, durante il turno, permette non solo di raccontare fatti o avvenimenti ma di costruire, insieme ai colleghi,  il senso di quello che è accaduto; di cogliere ed evidenziare le sfumature affettive/emotive di un data interazione con un utente; di comprendere la valenza relazionale di un conflitto. Si riflette, inoltre su quale sia il comportamento più adatto per quel dato paziente in quel dato momento (contenerlo emotivamente; consentirgli comportamenti regressivi o al contrario stimolarlo e coinvolgerlo in attività pratiche ecc.).

Il cosiddetto diario di bordo nel quale viene registrato tutto quello che emerge dal confronto diventa, allora, non soltanto o semplicemente un quaderno nel quale scrivere delle consegne, ma la memoria scritta di pezzi di un modello di lavoro in perenne costruzione o meglio co-costruzione;  inoltre, essendo letto  dagli operatori non in turno, in ferie, o in malattia, diventa uno strumento prezioso per rendere patrimonio di tutti la riflessione sul lavoro quotidiano. Questi strumenti operativi potenziando i momenti istituzionali di formazione ( i seminari, le supervisioni, i corsi di formazione ecc)  e rendendo, come dire, più stretto, il rapporto circolare tra esperienza e riflessione su questa, tra pensiero e prassi, ritengo che favoriscano l’interiorizzazione in tutti gli operatori, al di la della personale formazione di base e del ruolo e delle mansioni che  svolgono all’interno della comunità  di un modello operativo comune, un modello che non può non essere in continua evoluzione, che si radica su una cultura gruppoanalitica  ma che  pone sia a monte che a valle di questa operazione  la reale esperienza di lavoro quotidiano.

Entrando nel merito di tale modello operativol’ organizzazione e la gestione del quotidiano è orientata da alcuni presupposti teorici, elementi che fanno da guida alle prassi giornaliere del gruppo di lavoro e che consentono la verifica di quanto viene fatto.

Vi è la consapevolezza che abitare non significa semplicemente stare in un luogo ma costruire, e quindi vivere all’interno di relazioni significative con persone, oggetti, spazi.

In comunità questo processo viene supportato in modi diversi, ad esempio viene favorita la personalizzazione della propria stanza; quando è possibile (se le condizioni strutturali lo consentono) si accoglie la richiesta di fare dei cambiamenti di stanza in base alle simpatie/amicizie che si instaurano all’interno della comunità; si coinvolgono gli utenti nella scelta e acquisto di nuovi arredi (tende, copridivani, quadri) e nell’abbellimento della casa (fiori, piante ecc.).

I “luoghi giusti” (Torpor, 2000) per la cura sono quelli all’interno dei quali una persona può sentirsi ed essere vista non solo e sempre come una persona disturbata, né deve sempre comportarsi come una persona in piena salute. Questo implica, da parte dell’operatore la capacità di vedere sempre nel soggetto abilità, capacità, potenzialità, ma anche i limiti, i vincoli derivanti dalla psicopatologia.

La comunità, per ogni paziente deve allora far oscillare  il suo funzionamento fra una modalità contenitiva, e supportiva,  e una evolutiva volta cioè a promuovere l’emancipazione del paziente.

La prima modalità di funzionamento viene attuata soprattutto in una prima fase, cioè all’ingresso del paziente; la comunità, inizialmente deve fungere da “residenza emotiva” (Zapparoli cit. in Ferruta, Foresti, Pedriali, Vigorelli, 1998), un luogo nel quale stabilire un legame di attaccamento che abbia una funzione coesiva.

Così, ricordo che per C. , una ragazza di ventotto anni  che ha vissuto all’interno della comunità per circa tre anni, nei primi mesi (circa nove mesi) dopo il suo arrivo dopo aver girovagato per un anno nei diversi reparti di psichiatria di Catania, è stata necessaria la presenza costante di un operatore al quale dire quello che in quel momento stava pensando, insieme al quale svolgere le attività domestiche che le competevano (turno bagni, piatti, rifare il letto ecc.); al quale chiedere conferma rispetto agli indumenti che aveva indossato; insieme al quale pensare le cose da fare durante la giornata.

In questa fase, il gruppo di lavoro deve svolgere una funzione che può essere definita di “Io ausiliario collettivo”, cioè una funzione protesica volta a sostenere le aree deficitarie del paziente, attraverso il riconoscimento e la risposta empatica ai suoi bisogni.

Progressivamente, la funzione della comunità deve essere volta a favorire in maniera graduale l’emancipazione, e la promozione della autosostenibilità (Trevisiol, 1996 cit. in Fasolo, aprile 2005) del paziente favorendo lo sviluppo di relazioni di interdipendenza caratterizzate da coinvolgimento, partecipazione, reciprocità. Bisogna, cioè, riconoscere accanto ai bisogni integrativi, anche quelli evolutivi, favorire, una volta che il soggetto ha raggiunto un buon grado di coesione, anche la coerenza. Questo implica la non semplice operazione di concepire e organizzare il quotidiano, articolandolo in  azioni, momenti,  gesti, che abbiano questo senso.   In comunità, allora, a tempo debito, viene favorita l’autonomia rispetto a tutte le dimensioni del fare quotidiano e viene attuato un progressivo passaggio dal fare insieme al fare da soli.

Piccoli incarichi, come ad esempio preparare il caffè, andare a fare la spesa da soli, scambiare i soldi, contattare l’amico idraulico per far riparare un rubinetto,  hanno un grande valore. Implicano il riconoscimento di una abilità, favoriscono il senso di partecipazione alla vita di comunità e la sperimentazione di una graduale autonomia.  Inoltre, sono espressione del fatto che l’operatore si fida e affida al soggetto delle responsabilità; la relazione in quei momenti si pone su un piano di reciprocità.

Come insegna Racamier (1998), bisogna aver in mente e cercare di mettere in opera idee e  azioni, all’interno della comunità, che possano configurarsi come delle “azioni parlanti”, azioni cioè che assumano un valore transizionale tra l’ordine psichico e l’ordine pragmatico, tra il sé e l’altro, tra la dimensione soggettiva e quella del gruppo, tra l’io e il noi.

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