l'orso di Righetto...
Creato il 02 aprile 2013 da Omar
Si fa presto a dire Tarantino.
Quando qualche anno fa il nome dello scrittore padovano Matteo Righetto comparve per la prima volta tra gli scaffali delle librerie della penisola, il suo Savana Padana, romanzo affollato di truci redneck che si affrontavano a revolverate sullo sfondo di un Veneto cinico e razzista, gli fece guadagnare in pochi ma decisivi passaggi sulla stampa nazionale la qualifica imperitura di scrittore «tarantiniano».
Dietro questa oscura definizione, sovente utilizzata a sproposito - e non di rado con un velato disprezzo - dagli addetti ai paginoni culturali, si agita un variegato maelström di concetti eterogenei; qualcosa che, oltre a definire con precisione soprattutto la pigrizia di buona parte della nostra classe giornalistica, sempre più impegnata ad incollare con rapidità un’etichetta a ciò che non capisce, finisce sempre per vincolare, nel bene e nel male, il lavoro di un autore limitandone lo sguardo (quelli che parlano bene direbbero "la poetica") al pur folto bacino dei fedelissimi del genere.
A dirla tutta, lo stesso Righetto - forse ancora non perfettamente destro all’uso dei propri mezzi espressivi - ha in seguito contribuito a cristallizzare l'immagine di scrittore pulp che lo smunto mercato editoriale italiano stava rapidamente cucendogli addosso col successivo Bacchiglione Blues: spumeggiante (ma forse un po’ ripetitiva) variazione in salsa settentrionale di quella prospettiva torrida e iperviolenta tipica del sud degli Stati Uniti che vede nel mitico «Big» Joe Lansdale il suo più efficace cantore e la cui onda lunga ha, in quest'ultimo decennio, partorito una quantità sinceramente spropositata di epigoni in tutto il globo. Non che, sia detto per inciso, il Blues in questione deludesse i palati dei cultori di questo tipo di storiacce malate - chi vi scrive in primis ne ha tessuto le lodi in varie occasioni - ma qualche nota all'interno del rodato meccanismo generale sembrava talvolta dissonare, mettendo in evidenza il fatto che, forse, il recinto del genere cominciava a stare stretto all'autore padovano.
Attendevamo quindi con una certa apprensione il fondamentale giro di boa del terzo romanzo per questo narratore dalla penna accattivante, sinceramente appassionato di libri e letteratura (sono rinomate le sue molteplici attività legate alla promozione culturale nella sua regione), che pur con indubbie cartucce nel proprio cinturone rischiava di rimanere invischiato nella limitante melassa poltigliosa della narrativa «di consumo».
Invece grazie a questo nuovo, potente La pelle dell'orso il buon Righetto conferma le sue doti di prosatore attento e capace, sbugiardando in un colpo solo il cipiglio di tanta critica italiota e dimostrando agli amanti della parola scritta di essere (insindacabilmente) approdato a una fase adulta del proprio percorso creativo.
Il libro, edito proprio in questi giorni da Guanda, mette nelle mani del lettore una bella storia dal passo sicuro, agile e scattante, che trabocca epos ad ogni pagina pescando a piene mani tanto dalla pregiata tradizione del bildungsromance quanto dal più forbito folklore letterario (il plantigrado al centro della vicenda è evidentemente figlio spurio dell'immenso, imprendibile orso protagonista del famosissimo racconto eponimo firmato dal vate di tutti i machismi panici: quello William Faulkner la cui imponente ombra, al pari di quella di un altrettanto monumentale Jack London, deve aver presieduto con prepotenza sulle spalle di Righetto lungo l'intera stesura di questo ultimo lavoro). La pelle dell'orso mette infatti - magistralmente - in scena i travagli di un ragazzino cresciuto ai piedi delle Dolomiti e del suo malinconico padre ubriacone, impegnando entrambi in una perigliosa caccia a un leggendario orso tra le alture alpine, in sullo scorcio dei Sessanta. L’incontro della coppia con la belva famelica, el diàol, rappresenterà per Domenico, il ragazzino sul quale la storia si sviluppa, uno snodo importante per la propria maturazione di uomo, e al suo ritorno a casa niente sarà più lo stesso.
Una scrittura maestosa pregna degli ormai consueti ammiccamenti dialettali si mescola con abilità a sontuose descrizioni della natura di montagna, allestendo una sorvegliatissima cornice letteraria per una vicenda che tocca con audacia (ripagata) le corde di un sentire ancestrale che emoziona. Righetto confeziona quindi il suo piatto più riuscito, e lo fa senza peritarsi di disseminare omaggi ai padri riconosciuti della Grande Letteratura d'Avventura (oltre al naturale richiamo alla più classica Linea d'ombra conradiana, è impossibile non scorgere nel rapporto padre-figlio del libro un rimando immediato a quello sublime e commovente che Cormac McCarthy seppe magnificare nel suo più premiato romanzo, La Strada, un libro che evidentemente Righetto deve aver adorato).
Diàol d'un Matteo, c'è di che essere invidiosi!
La pelle dell'orso - Matteo Righetto (Ed. Guanda)
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