Solerte come per obbedire a una superiore necessità, a un sintagma d’anima o a un dovere di cronaca del suo sentire stesso, a un bisogno pungolante e asciutto nella strofa breve, nella scelta sorvegliata delle parole setacciate in economia di dramma domestico e quindi singolare e dolorosamente importante, “L’ospite indocile” di Lucianna Argentino confessa il desiderio di testimoniare un’esistenza ordinaria investita dalla luminosità della vita che si spegne “ …perché ogni attimo possa dire/ l’eterno che contiene senza morirne”. Gli aspetti della nostra quotidiana esistenza, allora, affiorano come parte visibile, perché ultima, di un procedimento biologico i cui sviluppi non sono a noi chiari come semina del mistero e come quotidiana interrogazione, ma non tanto da non poter essere indagati.
Questa di Lucianna Argentino è una poesia che calibra le sue-nostre vicissitudini rilevabili sul terreno ancora calpestato dai sentimenti, attraverso una ricerca linguistica dotata di caratteristiche vitali estreme: qui, insomma, le immagini e i pensieri che circolano, a partire da quelli familiari, agiscono districandosi in volute elicoidali per dar conto di un’esistenza in funzione ontologica e filogenetica:
“Il nome del padre/ è un nome difficile/ che a sussurrarlo/ temi ne fugga la luce/ e a dirlo forte/ se ne perda il regno”. Si tratta di un circuito di versi dosatissimo, che cresce su se stesso nella misura in cui le astrattezze delle impennate “spirituali” comportano attorcigliamenti emotivi piuttosto che gnoseologici. A me pare, insomma, che la Nostra voglia interpretare vitalmente i fatti della sua storia personale conclusa prima che essi riaffiorino rammendati allo sguardo: “ Sembrava facile pensare che potesse essere tutto lì./ (…) Felice di nulla edificare”.
La qualità del suo scrivere, pertanto, sta nel tono e nell’atmosfera dell’ansia che sfida il contenuto e le strutture dell’eterno intravisto. Da qui un accentuare gli elementi espressivi fino a farli lievitare come contemplazione di moti dell’anima, di note vive e plastiche, libertà dell’interno “ ordine poematico ” che è, più e più volte, castità e purezza del dettato: “… Così lo scrivo, ne faccio segno,/ per capire come si spiega l’albero la potatura” e più giù nella stessa lirica “… O come si spiega il vuoto degli esseri/ che ci stanno accanto come un’assenza …”. Un alito di desideri inestinti a simbolo della vita che, attraverso l’evocazione o la memoria di sue immagini terrene, esalta il colloquio infinto che invera occasioni appena scorporate per ridare ancora un nome o per essere voce, ramificazione dell’umana sensibilità come semantica della fiamma tenue e forte del passato in cui permane il magico influsso della materialità dell’esistenza: “ …come una nostalgia/ simile a quella che del corpo hanno i morti” sicuro agli orli delle tangibili cose-emblemi della durata mortale. E lì, sminuzzati ma sempre riconoscibili, si addensano l’energia e il significato di un compiuto itinerario poetico che, come remota vibrazione, riarde in ogni parola:
“ Ci diciamo è già finito gennaio/ e gli anni dietro a sorridere/ del nostro ingenuo sorprenderci/ ogni volta/ come avessimo sperato un rinvio/ come se il tempo potesse procrastinare i suoi passi/ per noi che continuiamo a mangiare il frutto/ della prima disobbedienza”.
Tutta questa duttilità di espressioni porta, nell’ambito delle stesse parole, una sorta di sfaccettamento logico per cui i vocaboli, anche se vincolati a riferimenti di umana dolcezza, detengono tutta la superiore rappresentazione emergendo come geometria della ragione e come architettura poetica. La poesia di Lucianna Argentino diviene, così, il magico alfabeto in cui convergono i motivi di una commossa e vigile oscillazione dell’intimo del cuore e della funzionalità linguistica che segnano un ordine di scelte dei più rappresentativi del suo percorso artistico.
Eugenio Nastasi
Dice che non c’è addio nelle asole
e asola allora sia:
poca materia intorno e vuoto.
Sia passaggio e allaccio
sia lo spazio dell’abbraccio
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso esposto alla parola.
***
Rientrano nel chiostro serale le nubi,
infilano la cruna dei campanili
tessono l’attesa, la disciplina dello sguardo
posato su un mondo in calo
sciupato ed esangue
per la cui salute mordo la carne di Dio
e mi lascio mordere
perché ogni attimo possa dire
l’eterno che contiene senza morirne.
***
Sommale le storie, fanne cifre aguzze
come gli anni di quelli vissuti
sulla capocchia di uno spillo;
prendimi il fiato, la rincorsa;
trattienimi dentro silenzi
in ascolto delle radici,
del crescermi dell’anima
mentre scrivo per sapere cosa è natura
e cosa è sostanza e come fa a essere buono
un frutto o un uomo.
***
Prossimi al mio dire
quelli battezzati con la terra,
rivestiti della grazia delle zolle,
braccati nelle selve cittadine,
entro radure di pestilenze umane,
di ossa rotte, di fracassate speranze.
Prossimi al mio dire
quelli senza peso, senza giusta misura
predestinati all’indeterminazione,
cause efficienti della frazione del pane.
***
Sembrava facile pensare che potesse essere tutto lì.
C’era il sole, il vociare del vento, c’era l’infanzia con le altalene
a filare il tempo, c’erano i prati, gli alberi, il loro verde
materiale e mutevole e c’era un poco d’ombra
per non socchiudere troppo gli occhi.
Sembrava facile, sì, pensare che potesse essere tutto
in quella luce a strati, nel desinare chiaro della rondine,
nel lavorio della formica, nella liturgia della morte,
nella sua sonora pietra. Felice di nulla edificare.
***
Non so quale felicità avremmo vissuto,
o quale guancia avremmo offerto all’offesa
se felicità c’è stata, se c’è stata offesa.
Così lo scrivo, ne faccio segno,
per capire come si spiega l’albero la potatura,
il papavero lo strappo
i bambini il tempo e lo spazio:
- dove va la notte quando è giorno?
- mezz’ora è tanto o poco?
O come si spiega il vuoto degli esseri
che ci stanno accanto come un’assenza
o il senso irsuto della vita,
il suo difficile che diventa facile
quando cominci ad amare.
***
Basta additarci, basta l’ingratitudine
l’aspettarci sempre un segno
e non saperlo riconoscere
non saperci segno. Dammi allora almeno
la capacità di dirlo con parole conosciute,
semplici, quotidiane
come quando chiedo il pane
o un bicchiere d’acqua, ma vanno bene
pure parole un po’ sbagliate
come Damiano quando dice “pesa un chilometro”.
Dammi allora la capacità
di tracciare piano piano, giorno dopo giorno,
la mappa del tuo corpo e che sia come quando
l’anima viene alla superficie
e si distende sulla pelle.
***
La guerra finì
e loro che c’erano nati dentro
ne uscirono con vaghi ricordi
di allarmi e vermi nella minestra.
E nonna, quella di cui porto metà del nome,
presa nella continuità spazio temporale,
è malamente è malamente, ripensava
e quando le offrivano del vino
na cria diceva, una goccia, una lacrima.
No cry nonna no cry
passati ormai a un’altra storia
a un’altra guerra di tutto il lascito
ce ne resta na cria.
***
Non è che l’ombra del silenzio
questa parola che irrompe
e sgorga necessaria come tutto il bene
che in questo momento è compiuto
nel basso della terra
e si misura ad altezza d’uomo.
***
Andava incontro al padre
lo rimetteva al passo,
al presentimento postumo.
Fate presto, fu ciò che in ultimo
udì da lui vero di voce.
Voce rimasta a vibrare
in qualche punto indeterminato,
catturata dove la memoria
non è questione di sinapsi e neuroni
piuttosto del moto armonico semplice dell’amore
che tiene alto il coefficiente di correlazione
tra i vivi e i morti.
***
C’è qui – mentre le voci dei bambini
impollinano il tempo – come una nostalgia
simile a quella che del corpo hanno i morti.
Acqua acqua fuoco fuoco – giocano
a chi trova ciò che è nascosto
un gioco che durerà ancora,
a lungo.
***
Gli abbracci vuoti,
da braccia nude,
senza niente in mezzo.
Solo abbraccio.
Solo contrarsi di muscoli e tendini,
solo flettersi della pelle
sulla pelle di ciò che è carnale e basta,
in comunione con l’attimo del concepimento.
Vita sottratta alla morte – questo è nelle parole,
aratro sulla carne a scavare solchi complici
del potenziale elettrico del cuore.
***
Scrivo di nascosto da Dio
che nella bocca voglio parole mie
e niente niente
nel passaggio dalla fronte alla spalla
dal gomito alle dita alla punta della penna
al suo muoversi sul foglio
per mio sentire altro
per meditato silenzio e pulsare di tempie
per il mio stare accovacciata
presso lo scavo con l’angelo geometra
e la sua corda a misurare
quanta benedizione c’è sulla terra