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L’Ucraina in piazza ci porta indietro di un secolo. Senza “social-media” si fa la rivoluzione?

Creato il 12 marzo 2014 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 12 marzo 2014 in Opinioni ed eresie, Slider, Ucraina with 1 Comment
di Kaspar Hauser

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Il seguente articolo non rappresenta il punto di vista della redazione ma è un’opinione che riteniamo utile al dibattito e all’approfondimento. 

Dopo tante rivoluzioni “social” finalmente una rivolta vecchia maniera. In Ucraina non è andato in scena Facebook o, meglio, il suo equivalente VKontakte, e i social-media non sono stati il mezzo con cui la piazza si è organizzata. Segno che ci si può ancora rivoltare senza applicazioni duepuntozero. Certo, gli ucraini avrebbero trovato più agevole mandarsi un tweet piuttosto che usare l’obsoleto telefono o – peggio – suonare il campanello di casa del vicino, ma il regime di Yanukovich ha agito off-screen finché ha potuto, bloccando per quanto possibile gli account vKontakte più critici. A schermi spenti sono stati anche i pestaggi notturni, i prelievi degli attivisti dagli ospedali, le intimidazioni e le minacce compiute dalla polizia di Yanukovich. In ogni caso, finché la lotta tra “palazzo” e “piazza” è stata condotta sottotraccia, a ben poco potevano servire i social-media: quali video pubblicare, quali immagini a testimoniare la brutalità del regime? Poi sono venuti i cecchini e le immagini hanno fatto il giro del mondo, anche con i social-media oscurati. 

La rivolta ucraina è una rivolta del Novecento: donne e anziani si sono messi a fare la catena umana per trasportare le pietre divelte dalla pavimentazione pubblica fino alla “trincea” di piazza Indipendenza. Ragazzini a fare la spola portando vettovaglie, sigarette e benzina per le bombe molotov. E sulla linea delle barricate rivoltosi e forze dell’ordine si fronteggiavano, faccia a faccia: niente Facebook, qui. Quando la rivolta si è fatta più dura, i cecchini si sono messi a sparare contro quelli nascosti dietro le barricate o che stavano nella terra di nessuno: professionali e terribilmente old-fashion, sparavano al cuore o alla testa. Un colpo solo.

La Maidan ucraina ci consegna una violenza che le nostre pigre coscienze credevano risolta per sempre dalla guerra dei tasti silenziosi, dalla disinformazione e propaganda della guerra dei media. Anche i giornali più faciloni, che bollarono le cosiddette “primavere arabe” come “rivoluzioni dei social-media”, hanno dovuto arrendersi di fronte alla sorprendente crudeltà dello scontro. Alcuni giornali hanno allora seguito le retoriche che volevano i dimostranti tutti europeisti, altri invece li hanno definiti neonazisti. Quello che ai giornali è sfuggita è la complessità sociale della rivolta, in quella piazza c’era tutto e il contrario di tutto. E i partiti che oggi formano il governo non rappresentano quella piazza: è stata la gente di Maidan a fare la “rivoluzione” e non i politici. Questi ultimi, anzi, sono stati sempre ignorati dai dimostranti che hanno continuato a usare la forza anche quando i partiti cercavano una soluzione pacifica (o di compromesso) con il presidente Yanukovich.

Oggi in Crimea sta andando in scena un copione simile: oscurate le reti televisive ucraine e bloccato vKontakte, il potere russo cerca di disarmare il dissenso. Sebastopoli non è Kiev, e l’opposizione al nuovo corso russofilo non è organizzata né sufficientemente forte. Solo le donne sono andate davanti al locale parlamento, in abiti tradizionali, cantando vecchie canzoni ucraine: un segno di dissenso evidente quanto inutile. Ma sotto la cenere cova, anche in Crimea, il fuoco della violenza.

La crisi ucraina ci riporta al Novecento anche per le retoriche e i simboli: definire “nazista” il governo di Kiev, così come la difesa della statua di Lenin o le bandiere sovietiche in Crimea, sono tentativi di polarizzare in modo ideologico le proteste. Mancando ideologie “duepuntozero” si ricorre a quelle vecchie che, ingenuamente, molti di noi credevano morte. E invece no: esiste ancora chi crede a cose come “l’impero del male”, “il sol dell’avvenire”, “la libertà dei popoli”, o che usa vecchie categorie per definire nuove realtà. Perché non dire semplicemente – se proprio lo si vuol fare – che il governo di Kiev è composto da nazionalisti o estremisti? Perché ricorrere a quella categoria di “nazisti”? Le parole sono importanti, diceva Moretti in un vecchio film. Usarle a caso significa togliere loro qualsiasi valore e capacità descrittiva. E dentro parole vuote si possono infilare concetti vaghi, pieghevoli, tascabili e buoni per ogni occasione. E questo al Cremlino come a Washington lo sanno bene.

E in questa Europa ostaggio del Novecento, e degli incubi che quel secolo porta con sé, davvero tutto è possibile. Non c’è “social media” che ci salverà. Anzi, l’ignoranza e la propaganda corrono veloci nel web. A guardare queste rivolte sembra che quando i social-media sono spenti, si accenda l’individuo con tutta la sua rabbia (giusta o sbagliata che sia). Con i social-media accesi le rivoluzioni si fanno in salotto: che grande strumento di controllo delle coscienze che sono! Se solo Putin l’avesse capito, quanti “mi piace” avrebbe raccolto.

Tags: Crimea, kaspar hauser, social-media, Ucraina, vKontakte Categories: Opinioni ed eresie, Slider, Ucraina


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