Mi tuffo dall’alto, leggero, grazie a un equilibrio finalmente acquisito, per sfogliare vecchie situazioni, vecchi capitoli scritti di fretta, dettati dalla passione del momento e poi trascurati come se il presente non fosse la somma dei giorni che lo precedono. Come se il presente fosse un “adesso” a cui si arriva come per magia, all’improvviso, senza aver attraversato prima altri attimi. Di consapevolezze ne ho conquistate tante e non voglio perdermi nuovamente nelle mie paure adolescenziali. Voglio, però, provare a intrufolarmi
in profondità, come una talpa, nei miei ricordi, nei miei pensieri di quei giorni e vedere che effetto fa.
La prima cosa che mi torna in mente di quell’esame di maturità è il caldo torrido. Un caldo così credo di non averlo mai sentito.
Probabilmente la mia colonnina di mercurio si adeguava ai continui sbalzi di umore che mi portavano a oscillare tra l’apatia e il terrore, il silenzio e il batticuore.
Di allora ricordo che la confusione trovava un degno compagno nel disordine della scrivania, sommersa da pagine, libri e appunti sparsi.
Che mi sentivo soffocare, iniziai a rendermene conto quando tutti facevano il countdown delle ore che mancavano al termine della scuola. L’idea che, a breve, tutto sarebbe finito aveva uno strano retrogusto, malinconico e dolce assieme. Ho odiato per cinque anni quell’edificio, quelle quattro mura color canarino, e poi è successo che, proprio quando era arrivata l’ora di andarsene, quando è suonata l’ultima campanella, ciò che detestavo, quasi mi dispiaceva doverlo abbandonare davvero. È come quando ti accorgi di voler bene a qualcuno solo quando ti è lontano. Avevo paura. Paura soprattutto delle scelte che ero costretto a fare: non potevo più affidarmi al caso, seguire cosa il vento mi sussurrava.
Riuscivo a malapena a districarmi tra le certezze e gli alibi che mi ero costruito. Dovevo sbrigarmi. Sbrigarmi a scegliere cosa fare del mio domani. Ma prima mi toccava affrontare quelle prove. Il mio problema non erano gli scritti ma gli orali, quel venir catapultato in un faccia a faccia dai molti colori. Molte volte i colori dipendono da come decidiamo di vederli. E io sono daltonico per scelta. Non mi aspettavo clemenza, né un trattamento di favore che, in effetti, non c’è stato, ma poco importa. In fondo la maturità non è che uno dei mille muri che si porranno di fronte nel corso della vita: puoi tirare dritto, aggirarli o prenderli a testate, l’importante è andare oltre. Della mia notte prima non ricordo “quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” come dice la canzone.
Ricordo quell’ansia e tutti che mi ripetevano “non preoccuparti”. Incitamento inutile perché tanto sarai tu e il mondo, da solo, come sempre. Dopo d’allora, di notti prima degli esami ne ho vissute un’infinità e non credo ci sarà mai il tempo di smaltirle tutte.
Ma quella, quella non la dimenticherò mai. Sono passati solo tre anni da allora. Cosa vuoi che siano “solo” tre anni? Per me sono una vita.