E’ bello a volte scoprire in mezzo a best seller promossi dalle più potenti case editrici, piccoli testi che poi si rivelano grandi, grandissime opere. E’ altresì importante il ruolo della critica, senza la quale questo libro di Gianfranco Calligarich (valoroso regista e sceneggiatore per il cinema e la televisione) pubblicato per la prima volta nel 1973, non sarebbe mai più potuto approdare nelle librerie. Sto parlando de “L’ultima estate in città” ristampato di recente per i tipi della casa editrice Aragno che ha riportato alla luce questo capolavoro dimenticato poiché pubblicato in un periodo in cui la narrativa di genere esistenziale/sentimentale non aveva grande risonanza. (All’epoca si era impegnati nello sperimentalismo e le avanguardie la facevano da padrone con un certo tipo di letteratura definita “industriale”, finché non sopraggiunse la “crisi del romanzo” e giù a picco fino a metà degli anni ottanta cui si ricominciò con Tondelli e i suoi Under 25).
L’intera storia risponde ad una domanda ben precisa: si può in un attimo perdere la testa per una perfetta sconosciuta e rimanerne abbagliati dai suoi minimi gesti sino alle estreme conseguenze? Si può e questo è quanto accade a Leo Gazzarra, protagonista della storia che in una ventosa serata romana a casa di amici incrocia lo sguardo e il sorriso ammaliante di Arianna, una ventenne intelligente e nevrotica, seduttiva e instabile ma dalla bellezza sfolgorante al punto che tutto gli è permesso. Leo è uno “sfinocchiato” (chi è al limite, sul punto di arrendersi), uno che cerca di adattarsi alla precarietà che vive dal momento che è un milanese trasferitosi a Roma per motivi di lavoro. Simpatico, colto con una capacità fuori dal comune nello saper scrivere, con le ragazze Leo ha un certo successo anche se di “mettere la testa a posto” non vuole proprio saperne. Con Arianna invece è diverso, se ne innamora immediatamente e già in quel primo incontro comincia un lungo viaggio sentimentale con un vagabondaggio iniziatico dal centro cittadino fino al mare che lo sconquasserà definitivamente. Nonostante la reciproca attrazione, Leo non riuscirà a conquistare completamente Arianna se non quando ormai è già troppo tardi e lei è di un altro, la verità, tardiva, fa ancor più male a Leo: Arianna lo ha sempre amato pazzamente e lui da perdente qual è non si è mai accorto di questo sentimento profondo. Già perché Leo è un perdente, uno che vive di avanzi e Calligarich ce lo tratteggia come mai nessuno ha saputo disegnare questo tipo di figura. Colto e amante dei libri, Leo si accontenta di lavoretti saltuari (trascrizioni al Corriere dello Sport), bighellona per Roma, gira per i caffè del centro, si ubriaca ed è coinvolto occasionalmente nella vita dei salotti bene. Una figura distante anni luce da quella degli intellettuali di oggi e da chi aspira ad esserne la brutta copia, addirittura Leo riesce a rimanere dipendente Rai solo per mezza giornata, non essendo abituato a luoghi in cui la finzione è legge e le amorali segretarie fanno di tutto (TUTTO!!!) per scalare la vetta e così abbandonando un posto sicuro e ben remunerato. E’ in sintesi uno che da tempo si è arreso al dolore esistenziale e cerca sollievo solo negli incontri con Arianna che si badi bene esulano dall’atto amoroso e rimangono incontri dove confrontarsi sul male di vivere. Nessuno ovviamente ha colpa ed è lo stesso Leo a inizio racconto a precisare che non ce l’ha con nessuno e che non rivendica niente. In definitiva il rapporto con Arianna è in realtà un non-rapporto seppur sedimentato nell’animo con tracce vistose anche all’esterno.
Inutile negarlo è un piccolo-grande gioiello questo libro di Calligarich, ironico e dolente insieme. Una citazione a parte merita il paesaggio, una Roma irripetibile, solare e meravigliosa che se ce ne fosse bisogno fa innamorare ancor più chi porta questa città nel cuore.
Per rendere al meglio l’atmosfera che si respira nel libro e di che pasta è fatto Leo questo è quanto scrive il critico paolo Mauri su Repubblica:
“Chi è Leo Gazzarra?Secondo me è una sorta di personaggio aggiunto della Dolce vita. Non è felliniana la scena di Arianna che fa spesa nei negozi del centro e butta ogni cosa all’aria, comprando, coi soldi del suo ricco amante, tutto quello che di kitsch si può comprare e, alla fine, anche un innocente bassotto? E non è un po’ felliniano anche Leo, così dolcemente incapace di vivere? Arianna va a letto con Leo, nel suo alberghetto dietro Campo dei Fiori. Ancora un avanzo, pensa Leo che scopre di amarla davvero, ora che Arianna è di un altro… Né eroi, né antieroi: ecco la proposta narrativa, il referto esistenziale di Calligarich. Perdenti di razza, verrebbe da dire. E se proprio c’è da suicidarsi almeno facciamolo con grazia”.
Per dovere di cronaca è giusto riportare anche la voce di Natalia Ginzburg che con Cesare Garboli fecero da padrini a questo testo per il premio l’Inedito.
“Il romanzo è il ritratto ironico, amaro e disincantato di un uomo del nostro tempo. A trent’anni, egli si muove a caso tra mestieri discontinui e mediocri, fra convegni e incontri dove i rapporti umani sono effimeri e sfilacciati. Riconosce come suoi unici e non spregevoli beni una vecchia automobile, un appartamento imprestato, alcune rare e fluttuanti memorie familiari. L’incontro con una ragazza irrequieta e fragile, che a tratti gli si mette accanto e a tratti scompare, e le deliranti divagazioni di un amico distrutto dall’alcool sembrano insediarsi nella sua solitudine e accendere in lui una volontà di scelta e un soffio vitale. Ma egli sa di essere nel numero di quelli che perdono, per una inettitudine a vivere e per una oscura repulsione verso ogni vittoria. La città che lo accoglie è una Roma inospitale, solenne, vasta e indifferente, e tuttavia prodiga nell’accordare a ogni esule e a ogni randagio qualche zona di protettiva penombra, non amica e non materna ma piuttosto beffardamente complice. La qualità essenziale del romanzo è nell’avere illuminato con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine”.