Nonostante questo, ogni mattina la donna si affacciava alla finestra e aspettava. Quindici minuti. Contava le provviste nella dispensa. Guardava le persone indicarla col dito. Lei, la donna incinta alla finestra. Quindici giorni. L’ultima gravida del mondo. Diciotto giorni. L’assenza di lui cresceva come la sua pancia.
All’inizio, prima che partisse, c’era stato un piccolo rigonfiamento – una pallottola; poi una pallina, una palla, una piccola sacca. Una sacca appena gonfia, sempre più gonfia. Poi lui era partito e lei aveva aspettato.
Trentacinque giorni. Si affacciava per farsi vedere. Se lui fosse tornato, l’avrebbe vista subito e avrebbe saputo che il suo passato era rimasto ad aspettarlo. La sacca sfiorava il davanzale gelido e alla donna venivano i brividi quando si affacciava ad aspettarlo. Sono brividi di freddo, si diceva, non ho paura.
No, non aveva paura, anche se sapeva che avrebbe dovuto. Lui non sarebbe tornato e la sua mancanza era nei movimenti della sacca che la donna sentiva da sola. Avrebbe potuto essere con lui, e lui avrebbe potuto accarezzarle la pancia, sorriderle, baciarle l’ombelico prominente, dire parole dolci al bambino – o, a seconda delle posizioni, al suo fegato – se non fosse stato per la Guerra, l’Ultima Guerra, la più orribile e la più inutile di tutte. Lei avrebbe dovuto avere paura, davvero, e lo sapeva, ma non le riusciva. A volte ci provava. Si affacciava alla finestra e, invece di guardare chi la guardava, fissava il cielo fuligginoso e la cenere trasportata dal vento come neve nera e calda. Tutto era caldo, soffocato da uno spesso strato di morte. Erano ancora vivi quindi il mondo era ancora abitabile, in un qualche modo assurdo e miracoloso – o incredibilmente sadico, pensava lei – ma era solo questione di tempo. Tutti lo sapevano. Quelli che la guardavano alla finestra. Forse anche lui.
La donna sapeva anche che non era giusto, ma non poteva farci niente. Il mondo era semplicemente impazzito. Secondo gli esperti tutto sarebbe esploso, diventando fuoco e fiamme. Immaginate il mondo immerso nella lava, aveva detto l’esperto alla radio, immaginate la terra come un grande tizzone ardente fino al nucleo. Poi gli avevano tolto il microfono. La donna si immaginava cenere come quella che sfrecciava fuori dalla finestra – lei e il suo bambino, entrambi cenere – fiocchi di neve nera e calda, a correre insieme per cercare il papà nel vento. Si sarebbero trovati, prima o poi? Si sarebbero riuniti?
Si chiedeva questo ogni mattina, affacciata alla finestra, a guardare chi la guardava. Forse, se si fossero riuniti, non se ne sarebbe accorta. La cenere non può abbracciarsi. E se si fossero sfiorati senza vedersi? Se si fossero addirittura scontrati senza ch
Fuori dalla finestra c’erano ancora persone che correvano chissà dove con le macchine cariche, trasbordanti di cose che sarebbero diventate cenere con loro. Eppure c’erano ancora persone che scappavano, ce n’erano, tante. Persone che la guardavano alla finestra e scappavano. Persone che urlavano, la guardavano alla finestra, lei e il suo pancione, e scappavano. Si chiedeva spesso se le persone stessero scappando dalla guerra, o da lei.
Durante l’Esodo la donna non era uscita di casa per paura di sentirsi male nella folla, di venir calpestata, di perdere il bambino. Poi c’era stata La Grande Esplosione, la Conferma, la Data della Fine. Era tutto già scritto e deciso. L’umanità aveva l’ultima occasione di comportarsi con dignità. Invece era scoppiata, inaspettata e ridicola, l’Ultima Guerra.
A quanto pare un tale “esperto” si era lasciato sfuggire che forse qualche posto del pianeta sarebbe stato ancora sicuro, che c’era ancora speranza di vivere in qualche luogo sperduto della terra. Che il Fuoco non avrebbe preso tutto. Lo aveva detto senza cognizione di causa, senza criterio né titoli; solo perché qualcuno gli aveva s
chiaffato un microfono davanti al naso, e per ricevere un po’ di attenzione, aveva scatenato tutto. Quel poco tempo rimasto agli uomini sarebbe stato flagellato dalla guerra a causa di un guizzo di vanità.
Il “posto sicuro”, per di più, cambiava di continuo. Una volta era l’Oceania, poi l’America del Sud, poi il Canada, il Polo Nord. E l’Ultima Guerra si spostava di conseguenza, senza un filo logico.
La sua pancia era un’inutile vergogna, un’aberrazione divina. Un lampo di vita dove stava finendo, un’offesa che saettava di fronte agli occhi dei folli solo per aizzarli uno contro l’altro. Nessuno voleva più sentir parlare di vita, anche se tutti improvvisamente non ne avevano mai abbastanza. Non ci avevano fatto niente per tanti anni e tutt’a un tratto eccoli lì, pronti a difenderla con le unghie e con i denti. Ridicoli. Le sue ceneri e quelle del suo prezioso bambino si sarebbero mischiate a quelle dei ridicoli.
Quarantadue giorni, tre ore, dodici minuti. Lui non era ancora tornato. La guerra si preannunciava lunga, ma il mondo sarebbe finito prima. Lei viveva nella parte disastrata del mondo, quindi destinata a morte certa e quasi completamente, meravigliosamente sola, nella sua casa piena di provviste. Pancia piena, paesaggio di cenere e la compagnia silente della sua gravidanza, lo schiaffo morale a tutto ciò che l’umanità era diventata: un branco di bifolchi assetati di sangue che avrebbero voluto tanto, tanto, tantissimo, far qualcosa prima che fosse troppo tardi, senza capire che avevano trasceso quel “tardi” da troppo tempo e che nessuno di loro sarebbe mai tornato indietro.
Lei e il suo bambino erano l’ultima offesa ad ogni cosa. Era felice di poter sopravvivere fino alla fine, solo per ricordare ad ognuno ogni cosa che aveva perso. Sapere che chiunque l’avrebbe vista alla finestra avrebbe ricordato quello che stava perdendo, avrebbe sentito il tempo scivolare via e sarebbe diventato isterico, folle o suicida dal panico. Era un gioco crudele, il suo modo di abbandonare la vita. Non la divertiva più ma non avrebbe smesso di farsi vedere, fino all’ultimo.
La donna sospirò e tornò a stendersi sul letto sporco e sfatto, in attesa dell’esplosione finale. Sapeva che era solo questione di giorni, ma non aveva ancora perso le speranze. Magari, con un po’ di fortuna, il mondo sarebbe finito anche domani.
Daniela Montella