L’ultima pagina: Rhapsody in black di Giorgio Bettinelli

Creato il 03 agosto 2010 da Mickpaolino

“Avevo sempre pensato che l’Africa fosse troppo incandescente per poter essere giudicata, o anche solo capita, a caldo. C’è troppa miseria, troppa ingiustizia e troppo dolore per potersene andare via con un bel ricordo; e c’è troppa bellezza per potersi ricordare solo del dolore e della miseria.”

Con questo commento definitivo il giornalista e scrittore Giorgio Bettinelli saluta il continente africano e chiude il libro Rhapsody in Black, la storia di un viaggio avventuroso, pericoloso ed illuminante attraverso 13 stati dall’Angola ad Ovest fino al Gibuti ad Est per un totale di oltre 20.000 km percorsi in gran parte a bordo di una fedelissima Vespa Piaggio.

Un itinerario ricco di mete evocative e tappe forzate causa pericoli e stenti in un continente che mostra tutte le sue contraddizioni sociali e culturali figlie di dominazioni, colonialismo e tanta, tanta miseria: ci sono le innumerevoli tribù, ciascuna con i propri usi e costumi, che si nutrono di un mix di sangue e farina e vivono di quei pochi spiccioli donatigli dai turisti di passaggio, gli eserciti di bambini, street kids, senza dimora e fin troppo spesso senza famiglia che vivono di furti e sniffano colla da falegname per tenersi in piedi, le ragazzine che vengono iniziate al mestiere più antico del mondo in tenera età, la malaria, la malaria cerebrale e una fame atavica; poi, al contrario, ci sono i cartelloni di McDonalds, della Sony e di altri brand all’ingresso di città in cui a dispetto di centinaia di homeless che vagano per strada trovi camere d’albergo da 200 a oltre 4000$ allo Sheraton o all’Hilton.

Senza contare le bellezze naturali e geografiche offerte da luoghi ostili e pericolosi ma oltre ogni dubbio meravigliosi come le rovine dei grandi imperi medioevali dell’Africa Centrale, il lago Malawi o i musei di Addis Abeba (Etiopia).

Menzione a parte meritano le decine e decine di guerre e conflitti che macchiano la terra del sangue delle migliaia di bambini soldati iniziati all’uso delle armi invece che alla lettura, alla scrittura e alle attività ludiche; in questo caso il contrasto è rappresentato dall’orgoglio di essersi affrancati da un dominio straniero o da un invasione: poco importa però se per farlo sono morte centinaia di migliaia di persone tra cui tantissimi bambini e giovanissimi.

Dopo aver passato oltre 6 mesi in mezzo a tutte le contraddizioni dell’Africa, Bettinelli si sfoga così:

mi ero chiesto perchè e in nome di che cosa questo continente stesse così male, perchè stesse sempre peggio ogni anno che passava…ero arrivato a pensare che alla maggioranza dei governanti africani non importasse nulla della gente che moriva di fame e di malatti, dei poveri, anzi, la miseria era quasi necessaria: più poveri c’erano e più aiuti economici arrivavano…più la gente moriva di fame e di malattie, più soldi venivano inviati dall’estero ed era facile farne arrivare una piccola parte a destinazione e fare bella figura e far sparire il grosso nelle tasche di chi contava…
E gli stati donatori? Mi ero chiesto se anche a loro importasse davvero qualcosa o se invece fosse solo una questione di apparenza… un’elemosina fatta al punto giusto voleva dire una concessione per sfruttare una miniera di diamanti o un giacimento petrolifero…
E le grandi organizzazioni governative, gli aid workers, i religiosi?
Ero ormai quasi convinto che l’Africa non potesse veramente essere aiutata dall’esterno, che gli africani dovessero aitarsi da soli; e se non avessero saputo nè potuto farlo, allora non ci sarebbe stata nemmeno più soluzione.

Che dire? Come quadro generale della situazione mi sembra crudo ma efficace. E se ce le facessimo tutti le domande che si pone Bettinelli?



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