In “L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo” c’è un po’ di tutto questo ma anche altro. Perché, oltre a raccontare l’odissea dello sceneggiatore più famoso di Hollywood, riverito e lautamente compensato dall’industria cinematografica fino a quando, sul finire degli anni 50’, il maccartismo e le liste di proscrizione ne fecero un reietto, costringendolo a lavorare con uno pseudonimo e per progetti indipendenti, il film di Jay Roach è anche il ritratto della mecca del cinema così come appariva al tramonto dei cosiddetti anni d’oro, quelli che videro la crisi dello studio system e più tardi la nascita del nuovo cinema americano. In questo modo, accanto alle vicissitudini del protagonista, costretto a impegnarsi su copioni di secondo ordine – cosa che non gli impedì la vittoria di due oscar, anche se solo il secondo gli fu nominalmente attribuito – per mantenere moglie e figli, il film propone la passerella delle celebrità del tempo – da John Wayne ed Edgard G. Robinson a Hedda Hooper, regina del pettegolezzo e sostenitrice della campagna del senatore McCarthy – che, in linea con il biopic più tradizionale vengono tipizzati assecondando aneddoti e stereotipi.
L’ultima parola – la vera
storia di Dalton Trumbo
di Jay Roach
con Bryan cranston, Ellen fanning,
Usa, 2015
genere, biopic
durata, 124'
Elemento indispensabile della
filiera cinematografica, la figura dello sceneggiatore è destinata ad occupare
una posizione defilata rispetto a quelle del regista e degli attori. La causa
va ricercata in parte nella natura stessa del suo lavoro che incomincia prima
degli altri e si conclude alla vigilia delle riprese, in parte nel fatto che la
scrittura per essere efficace ha bisogno di una dimensione che solo il silenzio
e la solitudine sono in grado di ricreare. C’è poi una terza ragione
comprensiva delle precedenti che dipende dall’abitudine a ragionare con la
propria testa e dalle reazioni che questo comporta nelle stanze del potere.
In “L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo” c’è un po’ di tutto questo ma anche altro. Perché, oltre a raccontare l’odissea dello sceneggiatore più famoso di Hollywood, riverito e lautamente compensato dall’industria cinematografica fino a quando, sul finire degli anni 50’, il maccartismo e le liste di proscrizione ne fecero un reietto, costringendolo a lavorare con uno pseudonimo e per progetti indipendenti, il film di Jay Roach è anche il ritratto della mecca del cinema così come appariva al tramonto dei cosiddetti anni d’oro, quelli che videro la crisi dello studio system e più tardi la nascita del nuovo cinema americano. In questo modo, accanto alle vicissitudini del protagonista, costretto a impegnarsi su copioni di secondo ordine – cosa che non gli impedì la vittoria di due oscar, anche se solo il secondo gli fu nominalmente attribuito – per mantenere moglie e figli, il film propone la passerella delle celebrità del tempo – da John Wayne ed Edgard G. Robinson a Hedda Hooper, regina del pettegolezzo e sostenitrice della campagna del senatore McCarthy – che, in linea con il biopic più tradizionale vengono tipizzati assecondando aneddoti e stereotipi.
Nulla di nuovo, se non fosse
che “L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo” trova il modo di
ritagliarsi la sua fetta d’importanza grazie alla contaggiosa energia di Bryan
Cranston il quale, dopo il successo di Breaking Bad conquista il grande schermo – e una nomination all’Oscar
– con una parte da assoluto mattatore, e in virtù di una messinscena che,
assecondando l’ottimismo e la brillantezza proprie di Dalton Trumbo, adotta
estetiche da commedia, e quindi una vivacità di colori, una spigliatezza di
scrittura e un’attitudine interpretativa che, nel loro insieme compensano la
drammaticità del contesto e ne rendono piacevole la visione.
In “L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo” c’è un po’ di tutto questo ma anche altro. Perché, oltre a raccontare l’odissea dello sceneggiatore più famoso di Hollywood, riverito e lautamente compensato dall’industria cinematografica fino a quando, sul finire degli anni 50’, il maccartismo e le liste di proscrizione ne fecero un reietto, costringendolo a lavorare con uno pseudonimo e per progetti indipendenti, il film di Jay Roach è anche il ritratto della mecca del cinema così come appariva al tramonto dei cosiddetti anni d’oro, quelli che videro la crisi dello studio system e più tardi la nascita del nuovo cinema americano. In questo modo, accanto alle vicissitudini del protagonista, costretto a impegnarsi su copioni di secondo ordine – cosa che non gli impedì la vittoria di due oscar, anche se solo il secondo gli fu nominalmente attribuito – per mantenere moglie e figli, il film propone la passerella delle celebrità del tempo – da John Wayne ed Edgard G. Robinson a Hedda Hooper, regina del pettegolezzo e sostenitrice della campagna del senatore McCarthy – che, in linea con il biopic più tradizionale vengono tipizzati assecondando aneddoti e stereotipi.
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