A mio parere rappresenta infatti una concreta e riuscita evoluzione dai consueti schemi bozzettistici, corredati da una messa in scena spesso sciatta e confusa fra ironia e toni sentimentali, propria di certe realizzazioni del regista toscano (penso in particolare ai sequel di Manuale d’amore), un distacco dovuto, credo, alla combinazione di due fattori. In primo luogo, infatti, vi ha certo contribuito il materiale narrativo a disposizione, la vera storia di Ernesto Fioretti, attualmente autista di produzione, che in circa quarant’anni ha svolto vari mestieri ed è stato testimone di molteplici cambiamenti avvenuti in tale lasso di tempo nel nostro paese, il quale ha collaborato alla stesura della sceneggiatura, insieme a Veronesi, Ugo Chiti e Filippo Bologna.
Alessandra Mastronardi ed Elio Germano
In seconda analisi, vuoi per i toni sinceri, vuoi per l’attenzione posta nell’imbastire una commedia corale, curandone i particolari (la bella fotografia di Fabio Cianchetti, per esempio) e puntando a valorizzare le interpretazioni piuttosto naturali offerte dall’intero cast (Elio Germano su tutti, per coerenza e duttilità), la mia impressione è che Veronesi abbia finalmente deciso “cosa fare da grande”, avvicinandosi, almeno come ispirazione concreta, alle caratteristiche della commedia all’italiana propriamente detta, nel tentativo di coinvolgere il pubblico in tale fase di passaggio puntando su una “sana” leggerezza e sulla fluidità narrativa. Ernesto Marchetti (Germano) vive a Roma e sin da bambino si è sempre trovato vittima degli eventi piuttosto che esserne attivamente coinvolto, dall’abbandono degli studi imposto dall’autoritario padre (Massimo Wertmüller), visti gli scarsi risultati, al conseguente coinvolgimento come suo aiutante nell’attività di tappezziere.
Germano e Massimo Wertmüller
Il nostro ha però sempre mantenuto una certa onestà di fondo e un candore quasi fanciullesco nel seguire, magari ingenuamente, la propria istintività, come il matrimonio con Angela (Alessandra Mastronardi), la donna della sua vita che non tradirà mai, o il repentino abbandono del posto fisso come cuoco d’asilo, una volta messi in atto i primi disastri, visto che lo ha ottenuto senza tanti sforzi e nessuna preparazione grazie ad opportuna “segnalazione” di un parente della moglie, sostituito dall’avvio di un’attività autonoma come autotrasportatore, insieme all’amico d’infanzia Giacinto (Ricky Memphis). Entrerà subito nel giro giusto, grazie anche alla conoscenza di un geniale pittore d’avanguardia (Alessandro Haber, misurato ed intenso), col quale stringerà presto amicizia, accomunati da identica purezza e disincanto, ma ancora una volta Ernesto dovrà subire le onde avverse del destino, nelle forme sempre più insidiose di una rapida trasformazione della società, solo in apparenza evolutiva…
Germano e Alessandro Haber
Una volta compresa la modalità di racconto scelta da Veronesi, prediligere il punto d’osservazione proprio dell’ “uomo qualunque”, un “eroe dei nostri tempi” intento “nell’impresa eccezionale di essere normale” come cantava Lucio Dalla, ovvero sincero ed onesto con se stesso e quanti gli stanno vicino, allora si potrà accettare che i vari accadimenti storici, sociali e di costume (l’omicidio di Aldo Moro, la nascita delle televisioni private, l’avvento del craxismo e del berlusconismo con relative conseguenze relative all’assunzione di inediti “valori”) debbano necessariamente apparire come dei rapidi e semplificati bozzetti. Rappresentano infatti qualcosa che irrompe nella vita quotidiana del protagonista e ne interrompe il consueto andamento o va a minare l’asse portante della sua esistenza: tutt’al più possono essere oggetto di qualche commento superficiale, espresso insieme alla figura discreta, ma sempre presente e spesso risolutiva negli inevitabili momenti di crisi, della moglie Angela, un’efficace Mastronardi.
Ricky Memphis e Germano
Ad Ernesto uomo comune si contrappone l’ italiano medio delineato da Giacinto e reso con bravura da un Memphis finalmente lontano dalle solite parti (da brivido il suo monologo sulla discesa in campo del pifferaio di Arcore, in particolare alla luce dei recenti avvenimenti): alla continua ricerca del definitivo sorpasso, lo vediamo socialista “moderno”, maneggione a suo agio fra intrallazzi e allestimento di mangiatoie pronto uso, al servizio di una fantomatica società del partito capitanata dal laido Del Monte (Sergio Rubini), poi, dopo un soggiorno nelle patrie galere, convinto adepto del “nuovo miracolo italiano” ed infine transfuga in Cina, terra promessa per inediti miraggi economici.
Elio Germano
Anche Ernesto si troverà coinvolto all’interno di tali manovre ma la sua levatura morale farà sì che non si lasci irretire dai canti delle tante sirene inneggianti ad un improvviso (ed improvvisato) benessere.Stupito, indignato a volte, attaccato alla vita nei momenti più bui (la comparsa di un male incurabile), capace di gioire anche per la rapida visita ed altrettanto veloce dipartita del classico colpo di fortuna, perché, per quanto benvenuto, non è qualcosa che sia dipeso dalla sua volontà o derivante dai sacrifici con cui ha mantenuto negli anni la sua famiglia, Ernesto resterà sempre l’ultima ruota del carro agli occhi dei più, una vita trascorsa in panchina ma nella consapevolezza di poter fare la differenza una volta entrato in campo.
Giovanni Veronesi
In conclusione, L’ultima ruota del carro è una valida commedia, più ironica che sarcastica, nella prevalenza di una certa bonomia di fondo, didascalica in qualche passaggio (come la pur bella ed efficace sequenza finale), sicuramente da vedere, capace di far ridere e commuovere, nel segno della nostra migliore tradizione, e che, soprattutto, fra ricordi sul filo della memoria, tanti interrogativi senza risposta, l’individuazione di omissioni istituzionali, individuali e collettive, permette un’analisi concreta su quel che siamo stati, ciò che avremmo potuto essere e quel che siamo diventati.