A volte mi rivedo nel traffico di una strada a cui non è concesso di rimaner tranquilla ma che, in fondo, soffre la solitudine. Nessuno, neppure le auto parcheggiate, si fermano mai abbastanza a farle compagnia; altre volte mi sento come quelle due palme estirpate dal suolo natio, a cui è stata imposta una nuova dimora nel caos e nella frenesia di questa città in perenne costruzione; e ancora come i lampioni spenti che solo di notte riescono a farsi notare.
La mia anima inquieta galleggia nei fondi di un caffè che ho dovuto lasciare a metà.
Sono così riflessivo che do maggior priorità ai miei pensieri, piuttosto che ai piccoli piaceri del quotidiano. Sono incatenato dall’abitudine di lasciare che la cenere e i mozziconi di sigarette non mie sporchino l’aria che respiro.
Ma ora basta! Mi sono seccato. Afferro la tazzina e l’accosto alla bocca. Chiudo gli occhi e, bagnandomi le labbra, mi tuffo in quel frammento di irrealtà dove ci sono solo ambizioni e sogni da rendere concreti. Dove ci sono solo sorrisi e progetti da plagiare. Divento, come tutti, indifferente per necessità. Per salvarmi.
Non voglio più sapere se la tazzina è piena o vuota, m’interessa che ci sia ancora spazio per me. E, nonostante la finestra continui a riflettermi, io sono anni luce distante da quelle sbarre fatte di parole, pensieri e osservazioni che precludono l’istinto barattato con l’illusione di poter aver tutto sotto controllo.
Forse è tardi ma ho raggiunto finalmente anche io, barcollante e stanco, gli altri sulle sponde della quiete che non precede alcuna tempesta.
Ho raggiunto anche io gli altri sulle sponde del carpe diem, per cogliere l’attimo a discapito del mormorio di un animo che era diventato insaziabile.