L'ultima stagione, parte 4 di 5

Da Mirco

Dalla parte di Laura
Il signore e la signora Orlando vivono in questa casa da dieci anni, che poi era il periodo di tempo in cui ci aveva vissuto anche Marco. Per loro però aveva un significato diverso: era il punto di arrivo dove tutto sarebbe finito, prima o poi. Per Marco invece è stato il punto d'inizio, l'utero in cemento armato in cui sognava di tornare, prima o poi.
Non era lontana da casa nostra e decidemmo quindi di andarci a piedi. Attraversammo un piccolo sentiero tracciato tra le ortiche. Dovetti stare attenta a non pungermi. Indossavo degli shorts e delle scarpe aperte. Marco invece, fiero del suo look sempre uguale come l'eroe di un fumetto, aveva dei jeans blu e una maglietta a tinta unita, rossa.
Si guardava attorno come se fosse tutto nuovo, eppure era rimasto tutto com'era tranne che per quella tinta gialla che non gli andava giù. Sembra il vomito di un cinese, diceva, come se i cinesi vomitassero giallo e come se vedesse tutti i giorni cinesi vomitare.
Il signore e la signora Orlando si chiamano rispettivamente Alfredo e Maria Letizia. Lui aveva circa settantacinque anni, sei in meno di lei, ma ne dimostrava dieci di più. Il cancro lo aveva reso pallido e scarnificato sotto gli zigomi. Il volto era un reticolo di rughe che, a detta della signora Orlando, sono nate soltanto in quest'ultimo anno.
– Ho fatto la torta di more – disse dopo aver spalancato la porta. Mi strinse le spalle con le sue mani tozze. Io accennai un mugolio di interesse verso la torta poi dissi:
– Lui è Marco.
– Certo, certo, Marco. So che sei cresciuto qui, vero? L'abbiamo presa dieci anni fa. Il povero Alfredo la vide sulla rivista di una ditta che vende immobili e se ne innamorò immediatamente. E' rimasto tutto com'era tranne il colore. Al povero Alfredo non piaceva il marrone. Ti piace il giallo? E' il mio colore preferito.
– Sì – rispose Marco calmo – mi ricorda un campo di grano.
Non pensavo che sapesse mentire così bene.
– Le piace il limoncello signora? – Marco porse la bottiglia che aveva in mano e finalmente riuscì a sorridere alla donna.
– Certo, certo che mi piace. E poi ci sta bene con i dolci. Cucino molti dolci. Entrate, vi faccio vedere la casa e poi mangiamo una fetta di torta di more e l'accompagniamo con il limoncello.
Una volta tornati a casa Marco mi disse che era rimasto tutto com'era anche dentro. Addirittura gli stessi vecchi quadri che raffiguravano campi di grano e papaveri, gli stessi soprammobili in porcellana raccattati nelle fiere di paese e la stessa carta da parati, così spenta ormai, che sembrava ci fosse stata passata una mano di vernice. La prima porta a destra era la sala da pranzo. Era arredata con una vetrina in noce, grande quanto una parete, e conteneva probabilmente un centinaio di bicchieri di ogni tipo. C'era poi un divano verde, dello stesso colore della tenda che copriva la finestra, e un mobile porta–tv sulla parete opposta. Al centro un tavolino in vetro maniacalmente pulito. Sulle pareti, in ogni parte, la signora Orlando aveva appeso piatti dipinti a mano che Marco guardava piegando la testa una volta a destra l'altra a sinistra.
– Ti piacciono i piatti? – chiese Maria Letizia. Conoscendolo ero sicura che li trovasse kitsch e che pensava che un bambino di cinque anni li avrebbe dipinti meglio. Maria Luisa invece non poteva saperlo.
– Qual è la tua stagione preferita?
– L'ultima – rispose lui.
La signora Orlando si alzò sulle punte e borbottò.
– Certo, certo, l'inverno – Stava per prendere il piatto su cui era ritratto un paesaggio invernale quando Marco le fermò il braccio. Rimasi a fissarlo senza respirare. Pensavo che adesso le dicesse: “no guardi, si risparmi il regalo, fa troppo schifo”.
Invece disse:
– L'ultima stagione per me è l'estate, non l'inverno.
– Certo, l'estate – disse la signora. Lasciò andare il piatto con l'inverno e ne prese un secondo in cui era raffigurato un pesco carico di frutta di fronte a un prato. Il piatto con l'inverno pensai che non era male. A parte il pupazzo di neve troppo grande rispetto alla casa e la fila di pini lungo il viale che non rispettava la prospettiva. Non era male, tutto sommato.
Quando tempo dopo gli chiesi perché considerasse l'estate l'ultima stagione mi rispose che aveva sempre avuto in testa il calendario scolastico: la scuola inizia a settembre, quando l'estate è ormai finita.
Ci spostammo in cucina dove la signora Orlando aveva già sistemato tre tazze per il tè con relativi sottopiatti, tre tovagliolini accanto a ogni tazza e un cucchiaino per girare, perfettamente allineato con le righe dei ricami del tovagliolino. Al centro c'era una biscottiera e un vaso di marmellata fatta in casa. Marco entrando disse: “speriamo che sappia davvero cucinare bene”. Feci un gesto impaziente e gli dissi di smetterla. La signora ci chiese di accomodarci. Prendemmo posto a tavola. Lei nel frattempo accese il gas e mise a bollire l'acqua.
– L'avevi già avvertita che saremmo venuti? – mi chiese sottovoce.
– No, a dire il vero. E' stata una decisione presa lì per lì. Non credo di averle neanche telefonato. Mi ha detto: “venite quando volete, io devo rimanere qui. Ogni due ore devo cambiare la flebo ad Alfredo, quindi non mi posso muovere”.
Rimase in silenzio a pensare, poi con gli occhi indicò la tavola apparecchiata per tre. Io feci spallucce.
– Vi saluta Alfredo – disse la signora Orlando. Era voltata di spalle verso la teiera che cominciava a sbuffare. Rimanemmo a guardarci senza sapere cosa dire.
– Il povero Alfredo era un bravo contadino, sapete? Certo, se ci fosse stato lui vi avrebbe fatto trovare una bella cesta di frutta fresca. Io, non sono capace di coltivare alberi da frutto. Qualche pianta, sì. Ho dei gerani, delle rose, ma non frutta.
Portò la teiera a tavola e versò l'acqua calda con molta attenzione.
– Quella è la marmellata di ciliege dello scorso anno. Le ha colte lui e io ne ho fatto una splendida marmellata – sospirò e poi la sentimmo borbottare: “povero Alfredo”.
– Ne parla come se fosse morto dieci anni fa – disse Marco a un tratto. Lo uccisi con uno sguardo. Il cucchiaino mi scivolò nella tazza del tè e quello schizzò a raggio intorno alla tazza. Marco rispose con uno sguardo indifferente e continuò a bere.
– Certo, capisco cosa vuoi dire. Sapete, non parlo mai con nessuno di queste cose, ma credo che tu debba saperlo.
– Cosa? – chiese Marco. Ebbi la sensazione che quella discussione stava diventando strana. Avevo ragione.
– Sai, Alfredo è ormai morto. Non c'è più. Quello che è sdraiato sul letto è soltanto il suo corpo. La sua anima è già volata via.
Appoggiò la bocca alla tazza. Il tè le bagnò le labbra. Era ancora troppo caldo quindi rimise la tazza a posto.
– Quelli sono biscotti fatti in casa – disse aprendo la biscottiera. Ne prendemmo uno a testa pescando a caso. Erano i biscotti più buoni che avessi mai mangiato.
– Certo, grazie – rispose la signora Orlando quando glielo dissi – Sapete, sapete cosa significa empatia? E' quel sentimento che ti lega a qualcuno. E' quando non puoi fare a meno di sentire cosa pensa lui o lei, non puoi fare a meno di soffrire quando una persona che ti è cara soffre.
Prese una pausa e ci osservò per testare il nostro livello di attenzione.
– E' l'empatia che mi fa sentire Alfredo – disse con calma. Io rimasi con la tazza a mezz'aria.
– Cosa vuole dire? – chiese Marco.
– Sento che mi parla, anche se è praticamente in coma. Lui mi parla.
Rimanemmo in silenzio per un po'. Ci scambiammo un paio di occhiate. Sentivo la testa di Marco frullare come le ali di un passero. Prese a giocherellare con l'indice premendo il cucchiaino nella parte concava. Lo girava di qua e di là, roteandolo.
– E' stato suo marito a dirle che saremmo venuti? – chiese togliendo l'indice dal cucchiaino. La signora allora sorrise e si alzò da tavola. Prese le tre tazze vuote e le sistemò nel lavandino.
– Certo che no – sorrise – Sai, Marco, il povero Alfredo non può comunicare con te. Non può sapere cosa pensi. Non c'è empatia. Capito? Tra anime possono farlo invece. Non puoi comunicare con lui se non c'è un forte legame di affetto... – sorrise di nuovo. Aprì il rubinetto e la vasca del lavandino si riempì di acqua fumante. L'aria divenne ancora più pesante con il calore di quell'acqua.
– ... o un legame di sangue.
Quando mi alzai la signora Orlando aveva terminato di lavare le tazze e le stava asciugando con un panno da cucina su cui erano disegnate delle fragole.
Non so che ora fosse, ma dietro la tenda il sole era andato via già da un po' di tempo.
– Credo che sia ora di andare – dissi, sputando le parole con il soffio di un sospiro di stanchezza.
– Certo, è tardi, dovrete senz'altro preparare la cena. Se volete ho del pollo arrosto con patate, non posso mangiarlo da sola.
– Grazie signora Orlando. Dobbiamo proprio andare, grazie lo stesso.
Marco scattò in piedi meccanicamente e prese la via della porta. Fece un cenno di saluto, era quasi indifferente, forse impaurito. Io strinsi la mano della signora e lei ricambiò con un abbraccio. Pensavo che fosse pazza.
– Così sei decisa a divorziare – sussurrò Riccardo avvicinandosi. La sua pelle calda e abbronzata mi avvolse e mi strinse prendendomi di sorpresa alle spalle. Sentivo i pettorali vibrare sulla mia schiena. Il lenzuolo a cui mi avvinsi sapeva ancora di tabacco e di profumo di marca.
– Non lo vedo da due settimane, è tornato a Roma.
– Sicura che non vuoi tornare da lui? – disse affabile. Più volte mi aveva messo di fronte all’errore che avevo commesso. Mi girai di tre quarti per guardarlo negli occhi mentre mi chiedeva di tornare con mio marito.
– Non ti preoccupare, non dico niente a tua moglie – lo rassicurai, tornando ad affondare la faccia nel cuscino ancora zuppo di lacrime.
– La lascerai, vero?
Mi accarezzò i capelli sistemandoli dietro l'orecchio.
– Certo – rispose – devi avere un po' di pazienza, sistemerò ogni cosa. Voglio però che tu sia sicura di quello che fai.
– Quali cose ci sono da sistemare? Parli con tua moglie e vieni a vivere qui – dissi con voce un po' alterata.
– Non è così facile – rispose lui – non so se ho voglia di venire ad abitare qui.
– Non ti piace la campagna?
– No, è che non credo sia il caso di venire ad abitare qui. Dovremmo aspettare un po' di tempo, che le acque si calmino. La gente di questo paese fiuta i pettegolezzi da lontano. Prenderò un appartamento, una casa popolare, e mi trasferirò lì. Dovrebbero essercene di disponibili fra un po' di tempo.
– Quanto?
– Un... un mese, forse due.
Mi addormentai pensando a quelle parole: un mese, forse due, ripetendole nella mente fino a sfumare in un lungo sonno inquieto.
Il giorno dopo ero seduta a tavola e pensavo a cosa cucinare per il pranzo. Riccardo avrebbe dovuto arrivare per le dodici. Avevo poco meno di un'ora. Dieci minuti dopo presi il cellulare e lo chiamai.
– Ho una riunione – mi disse – farò tardi e non credo che mi libererò facilmente prima delle... dell'una o le due. Mangia pure, io mi faccio un panino al bar. Ci vediamo direttamente stasera.


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