Sin dal titolo sembra davvero l’ultimo album di Francesco Guccini. Chissà se sarà così, l’arte non si controlla, anche se, forse, Guccini da tempo avverte che la sua vena creativa è meno prolifica e che è necessario diradare gli album. D’altra parte, sono passati più di otto anni dall’ultimo disco di canzoni nuove (Ritratti del 2004). In fondo, però, Guccini è coerente perché, a parte l’inizio della sua carriera, non ha mai sfornato album in serie. La creatività ha bisogno di pause, silenzi, pensieri e, nel suo caso, può ormai permettersi di non osservare le logiche commerciali. Io penso che questo album sia di un livello artistico superiore rispetto agli ultimi due. Le musiche sono più articolate e ricche (la direzione artista è di “Flaco” Biondini), mentre dal punto di vista poetico non esiste un unico tema, bensì una serie di tematiche presentate sotto diverse colorazioni artistiche. Nel disco è presente, per esempio, la nota intimista (nel brano Notti, soprattutto), ma esiste anche il cantautore impegnato oppure quello che riflette sul senso dell’essere artista senza sentirsi tale (Gli artisti dove canta con disincanto: “Fabbrico sedie e canzoni/erbaggi amari, cicoria,/o un grappolo di illusioni/che svaniscono dalla memoria,/ e non restano nella memoria”) oppure il Guccini che si dedica a una “pacata” invettiva contro la società moderna. Penso in questo caso a Il testamento di un pagliaccio in cui, veleggiando tra François Villon e De Andrè, l’autore tesse un elogio della follia o della matta saggezza di un pagliaccio, il cui mondo alla rovescia sembra il solo mondo reale: “Cari amici, ascoltatemi un momento,/sta per morire, e così l’ha finita/la pagliacciata che chiamava vita/sta per morire e ha fatto testamento”. Nonostante gli anni, rimane viva in Guccini la capacità di cogliere il senso delle cose dalle pieghe del vivere, dai momenti in apparenza meno significativi della realtà. Il racconto del dramma dell’esistere è privo di retorica. Per esempio, ne L’ultima volta un paio di semplici sandali che gli erano stati regalati da bambino e che allora erano un oggetto quasi sacro, diviene il correlativo oggettivo per una riflessione amara su un tempo irrimediabilmente scomparso. Il legame con le proprie radici montanare sembra più saldo, come se solo attraverso di esso esistesse la possibilità di non perdersi in una modernità cui non s’appartiene. Non a caso, con versi che a me ricordano l’atmosfera dei Preludes di T. S. Eliot, in Canzone di notte n. 4 Guccini canta: “Ehi notte che mi arrivi di soppiatto,/notte senza rumori e senza imprese,/ehi notte che ti strusci come un gatto/contro gli angoli più oscuri del paese,/ehi notte che ti insinui in ogni anfratto,/notte pavanese”. Una delle caratteristiche tipiche di Guccini, che si è andata accentuando negli anni, è la sua professione di non appartenenza a ciò che si potrebbe chiamare il mondo moderno, la società d’oggi. Si tratta di un atteggiamento privo di snobismo, perché è una scelta di vita di un artista che ha trovato nella categoria dell’opposizione la sua dimensione. Non so se tale scelta sia maturata in sintonia con le avanguardie della poesia italiana del secondo dopoguerra. Potrebbe essere solo il frutto di una meditazione personale. L’opposizione di Guccini possiede un carattere universale, direi esistenziale, di certo non solo sociale o politico. Si tratta di un percorso verso la ricerca di sé mirante alla definizione del senso di non appartenenza a un mondo infarcito di ipocrisia. Questo percorso credo nasca con la celeberrima L’Avvelenata (1976): “mi piace far canzoni e bere vino,/mi piace far casino, poi sono nato fesso/e quindi tiro avanti e non mi svesto/dei panni che son solito portare:/ho tante cose ancor da raccontare/per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto”; passa attraverso un’invettiva più rabbiosa e generalizzata come quella contenuta in Cyrano nel 1996: (“Facciamola finita, venite tutti avanti/nuovi protagonisti, politici rampanti;/venite portaborse, ruffiani e mezze calze,/feroci conduttori di trasmissioni false”), per approdare nel 2000 alla più quieta coscienza di aver raggiunto questo stato di indifferenza e non appartenenza, come nel brano Addio dell’album Stagioni: “Nell’anno ‘99 di nostra vita/io, Francesco Guccini, eterno studente […] dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,/riflettori e paillettes delle televisioni,/alle urla scomposte di politicanti professionisti,/a quelle vostre glorie vuote da coglioni”. Mi pare che questa volta l’intero album L’Ultima Thule sia permeato da questo sentimento di non appartenenza, pur declinato in diverse prospettive. Qui la non appartenenza a una temporalità irriconoscibile diventa contraltare di un’appartenenza dichiarata senza veli a un mondo scomparso da tempo, quello dell’infanzia e dell’adolescenza pavanese (L’Ultima volta e Canzone di notte n. 4), quello della resistenza e dei suoi miti sempre più lontani e dimenticati (Su in collina e Quel giorno d’Aprile), quello di un “mestiere” d’artista libero da logiche commerciale o, peggio, politiche (Il testamento di un pagliaccio e Gli artisti). Il fascino che Guccini possiede, per i suoi fan, è legato alla sua celebre “coerenza”. In realtà questa parola appare vuota, perché è evidente che un uomo che ha alle spalle quasi cinquant’anni di carriera ha di certo mutato stili e idee. Tuttavia persistono in lui alcuni caratteri, letterari e musicali, che lo rendono riconoscibile ovvero qualcuno di cui ci si può fidare. Naturalmente i suoi detrattori stigmatizzano questa stagnazione delle idee e della musica (spesso ingiustamente); ma chi lo apprezza non può che dare un gran valore a questa sua caratteristica. Nella splendida Notti, Guccini sembra dichiarare la sua fede nella coerenza come valore: “Con la coerenza potrai difenderle dalla vergogna, o dare ragione a uno sbaglio, strapparti di dosso il guinzaglio”. Questa canzone rappresenta anche un classico del Guccini intimista poiché la notte è il momento privilegiato per determinate riflessioni, quando il tempo sembra sospeso e la mente è libera. È allora, forse, che la vacuità dell’affannarsi ingenuo degli uomini appare più fulgida; ma è sempre in questo momento notturno che ci si rende conto che la risposta alla consapevolezza di questa vanità dell’affannarsi non è l’inerte accettazione del nulla, ma il tentativo, titanico, di lasciare comunque una piccola traccia di sé: “Le notti scivolano o raschiano il fondo/lievi di schiuma o pugni di piombo,/imprevedibili come naufragi,/notti da cani randagi./Con la costanza potrai/seguirle fino a un traguardo,/voltarti indietro stupito,/ché non sei neanche partito”. Torna peraltro in questi versi il tema della sfiducia nell’uomo come “animale progettante”, già nobilmente tratteggiata nei versi finali di Incontro (1972). Un po’ di tristezza nasce ascoltando la canzone che chiude l’album e che a questo dà il titolo, ossia L’Ultima Thule. Questo misterioso regno di ghiacci, ultimo approdo, è “L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo/si spegnerà per sempre ogni passione,/si perderà in un’ultima canzone/di me e della mia nave il ricordo”. La canzone, però, è arricchita dal ricordo positivo di quel che è stato fatto, del cammino compiuto, e l’accettazione del tempo passato e del venir meno delle forze (“Dov’è la forza che mi circondava?/Ora si è spenta ormai, sparita via”) non è un atto di rassegnazione, bensì, mi auguro, di rivendicazione di quel che di buono è stato creato: “Le verità non vere in cui credevo/scoppiavano spargendosi d’intorno,/ma altre ne avevo e giorno dopo giorno/se morivo più forte rinascevo”. Il richiamo alla mitologia è privo di retorica, come già nel brano Odysseus (2004) contenuto in Ritratti. Guccini è in questo album, ancora una volta, un sano provocatore di dubbi e angosce, vivificanti. Le domande assolute che lui ci spinge a porci non hanno risposta, questo lo sappiamo. Ma una mente viva non può far altro che sbattere il capo contro questi interrogativi senza risposta. Aveva proprio ragione quando scriveva, nella Canzone delle ragazze che se ne vanno (1976): “quando picchierai la testa/contro ai tuoi perché?/allora ti ricorderai di me”. Sì, ce ne ricordiamo, di te.
Sin dal titolo sembra davvero l’ultimo album di Francesco Guccini. Chissà se sarà così, l’arte non si controlla, anche se, forse, Guccini da tempo avverte che la sua vena creativa è meno prolifica e che è necessario diradare gli album. D’altra parte, sono passati più di otto anni dall’ultimo disco di canzoni nuove (Ritratti del 2004). In fondo, però, Guccini è coerente perché, a parte l’inizio della sua carriera, non ha mai sfornato album in serie. La creatività ha bisogno di pause, silenzi, pensieri e, nel suo caso, può ormai permettersi di non osservare le logiche commerciali. Io penso che questo album sia di un livello artistico superiore rispetto agli ultimi due. Le musiche sono più articolate e ricche (la direzione artista è di “Flaco” Biondini), mentre dal punto di vista poetico non esiste un unico tema, bensì una serie di tematiche presentate sotto diverse colorazioni artistiche. Nel disco è presente, per esempio, la nota intimista (nel brano Notti, soprattutto), ma esiste anche il cantautore impegnato oppure quello che riflette sul senso dell’essere artista senza sentirsi tale (Gli artisti dove canta con disincanto: “Fabbrico sedie e canzoni/erbaggi amari, cicoria,/o un grappolo di illusioni/che svaniscono dalla memoria,/ e non restano nella memoria”) oppure il Guccini che si dedica a una “pacata” invettiva contro la società moderna. Penso in questo caso a Il testamento di un pagliaccio in cui, veleggiando tra François Villon e De Andrè, l’autore tesse un elogio della follia o della matta saggezza di un pagliaccio, il cui mondo alla rovescia sembra il solo mondo reale: “Cari amici, ascoltatemi un momento,/sta per morire, e così l’ha finita/la pagliacciata che chiamava vita/sta per morire e ha fatto testamento”. Nonostante gli anni, rimane viva in Guccini la capacità di cogliere il senso delle cose dalle pieghe del vivere, dai momenti in apparenza meno significativi della realtà. Il racconto del dramma dell’esistere è privo di retorica. Per esempio, ne L’ultima volta un paio di semplici sandali che gli erano stati regalati da bambino e che allora erano un oggetto quasi sacro, diviene il correlativo oggettivo per una riflessione amara su un tempo irrimediabilmente scomparso. Il legame con le proprie radici montanare sembra più saldo, come se solo attraverso di esso esistesse la possibilità di non perdersi in una modernità cui non s’appartiene. Non a caso, con versi che a me ricordano l’atmosfera dei Preludes di T. S. Eliot, in Canzone di notte n. 4 Guccini canta: “Ehi notte che mi arrivi di soppiatto,/notte senza rumori e senza imprese,/ehi notte che ti strusci come un gatto/contro gli angoli più oscuri del paese,/ehi notte che ti insinui in ogni anfratto,/notte pavanese”. Una delle caratteristiche tipiche di Guccini, che si è andata accentuando negli anni, è la sua professione di non appartenenza a ciò che si potrebbe chiamare il mondo moderno, la società d’oggi. Si tratta di un atteggiamento privo di snobismo, perché è una scelta di vita di un artista che ha trovato nella categoria dell’opposizione la sua dimensione. Non so se tale scelta sia maturata in sintonia con le avanguardie della poesia italiana del secondo dopoguerra. Potrebbe essere solo il frutto di una meditazione personale. L’opposizione di Guccini possiede un carattere universale, direi esistenziale, di certo non solo sociale o politico. Si tratta di un percorso verso la ricerca di sé mirante alla definizione del senso di non appartenenza a un mondo infarcito di ipocrisia. Questo percorso credo nasca con la celeberrima L’Avvelenata (1976): “mi piace far canzoni e bere vino,/mi piace far casino, poi sono nato fesso/e quindi tiro avanti e non mi svesto/dei panni che son solito portare:/ho tante cose ancor da raccontare/per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto”; passa attraverso un’invettiva più rabbiosa e generalizzata come quella contenuta in Cyrano nel 1996: (“Facciamola finita, venite tutti avanti/nuovi protagonisti, politici rampanti;/venite portaborse, ruffiani e mezze calze,/feroci conduttori di trasmissioni false”), per approdare nel 2000 alla più quieta coscienza di aver raggiunto questo stato di indifferenza e non appartenenza, come nel brano Addio dell’album Stagioni: “Nell’anno ‘99 di nostra vita/io, Francesco Guccini, eterno studente […] dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,/riflettori e paillettes delle televisioni,/alle urla scomposte di politicanti professionisti,/a quelle vostre glorie vuote da coglioni”. Mi pare che questa volta l’intero album L’Ultima Thule sia permeato da questo sentimento di non appartenenza, pur declinato in diverse prospettive. Qui la non appartenenza a una temporalità irriconoscibile diventa contraltare di un’appartenenza dichiarata senza veli a un mondo scomparso da tempo, quello dell’infanzia e dell’adolescenza pavanese (L’Ultima volta e Canzone di notte n. 4), quello della resistenza e dei suoi miti sempre più lontani e dimenticati (Su in collina e Quel giorno d’Aprile), quello di un “mestiere” d’artista libero da logiche commerciale o, peggio, politiche (Il testamento di un pagliaccio e Gli artisti). Il fascino che Guccini possiede, per i suoi fan, è legato alla sua celebre “coerenza”. In realtà questa parola appare vuota, perché è evidente che un uomo che ha alle spalle quasi cinquant’anni di carriera ha di certo mutato stili e idee. Tuttavia persistono in lui alcuni caratteri, letterari e musicali, che lo rendono riconoscibile ovvero qualcuno di cui ci si può fidare. Naturalmente i suoi detrattori stigmatizzano questa stagnazione delle idee e della musica (spesso ingiustamente); ma chi lo apprezza non può che dare un gran valore a questa sua caratteristica. Nella splendida Notti, Guccini sembra dichiarare la sua fede nella coerenza come valore: “Con la coerenza potrai difenderle dalla vergogna, o dare ragione a uno sbaglio, strapparti di dosso il guinzaglio”. Questa canzone rappresenta anche un classico del Guccini intimista poiché la notte è il momento privilegiato per determinate riflessioni, quando il tempo sembra sospeso e la mente è libera. È allora, forse, che la vacuità dell’affannarsi ingenuo degli uomini appare più fulgida; ma è sempre in questo momento notturno che ci si rende conto che la risposta alla consapevolezza di questa vanità dell’affannarsi non è l’inerte accettazione del nulla, ma il tentativo, titanico, di lasciare comunque una piccola traccia di sé: “Le notti scivolano o raschiano il fondo/lievi di schiuma o pugni di piombo,/imprevedibili come naufragi,/notti da cani randagi./Con la costanza potrai/seguirle fino a un traguardo,/voltarti indietro stupito,/ché non sei neanche partito”. Torna peraltro in questi versi il tema della sfiducia nell’uomo come “animale progettante”, già nobilmente tratteggiata nei versi finali di Incontro (1972). Un po’ di tristezza nasce ascoltando la canzone che chiude l’album e che a questo dà il titolo, ossia L’Ultima Thule. Questo misterioso regno di ghiacci, ultimo approdo, è “L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo/si spegnerà per sempre ogni passione,/si perderà in un’ultima canzone/di me e della mia nave il ricordo”. La canzone, però, è arricchita dal ricordo positivo di quel che è stato fatto, del cammino compiuto, e l’accettazione del tempo passato e del venir meno delle forze (“Dov’è la forza che mi circondava?/Ora si è spenta ormai, sparita via”) non è un atto di rassegnazione, bensì, mi auguro, di rivendicazione di quel che di buono è stato creato: “Le verità non vere in cui credevo/scoppiavano spargendosi d’intorno,/ma altre ne avevo e giorno dopo giorno/se morivo più forte rinascevo”. Il richiamo alla mitologia è privo di retorica, come già nel brano Odysseus (2004) contenuto in Ritratti. Guccini è in questo album, ancora una volta, un sano provocatore di dubbi e angosce, vivificanti. Le domande assolute che lui ci spinge a porci non hanno risposta, questo lo sappiamo. Ma una mente viva non può far altro che sbattere il capo contro questi interrogativi senza risposta. Aveva proprio ragione quando scriveva, nella Canzone delle ragazze che se ne vanno (1976): “quando picchierai la testa/contro ai tuoi perché?/allora ti ricorderai di me”. Sì, ce ne ricordiamo, di te.
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