L’Ultima Thule, l’Ultimo Capolavoro

Creato il 07 dicembre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine

La notizia è che questa volta Guccini ha fallito. Ha fallito perché aveva detto di aver sempre scritto canzoni tristi e che ce l’avrebbe messa tutta per fare un disco allegro: obbiettivo mancato. C’è chi ha richiesto insieme all’album dei fazzolettini. Su Twitter qualcuno ha scritto: «Io v’avviso, L’ultima Thule di Francesco Guccini fa piangere. Cazzi vostri se lo ascoltate nei momenti sbagliati». L’ultima Thule è l’ultimo lavoro di Francesco Guccini, l’ultimo suo capolavoro. Un album che sa di addio in ogni sua sfumatura, un addio senza rimpianti, consapevole, di un uomo che si rende conto di aver già detto tutto nelle sue canzoni e di non avere nemmeno più la forza e la voglia di fare concerti: convinzione forse maturata dopo aver chiuso stremato l’ultimo spettacolo all’Unipol Arena del 3 dicembre del 2011. Un album che è la logica evoluzione del «mi piace far canzoni e bere vino» de L’avvelenata e del successivo «ho ancora la forza di scegliere parole per gioco o per il gusto di potermi sfogare» di Ho ancora la forza. Oggi quella forza Guccini non ce l’ha più. Per Umberto Eco è «il più colto dei cantautori italiani», di certo è il più coerente. Lo si capisce dal libretto all’interno del cd: niente fotografie da divo, niente moine all’obbiettivo, solo una foto sua e di ognuno dei suoi musici e i testi delle canzoni. Coerente anche nelle piccolezze e nei vezzi di sempre: ringrazia i proprietari di una caciosteria per «l’ottima qualità del cibo e del vino». La cultura di cui parla Eco è tutta nel titolo L’ultima Thule, riferimento a un’isola oggetto di antichi racconti mitologici, chiunque altro avrebbe parlato di Atlantide: è poi l’unico che in una canzone riesce a citare esseri come l’anfesibena (che animale sarà mai?) e usare termini come “ribalderia”. L’ultima Thule potrebbe far pensare a L’isola non trovata, album del 1971, ma l’accostamento è solo casuale: allora si riferiva al suo viaggio oltreoceano che aveva del tutto tradito le sue aspettative nei confronti dell’America, oggi al futuro sconosciuto a cui va incontro.

L’album è stato registrato nella sua Pavana, all’interno del mitico Mulino di Chicon, un tempo dei nonni di Guccini. L’atmosfera familiare si sente tutta, grazie anche ai magistrali arrangiamenti del fido Juan Carlos “Flaco” Biondini e alla collaborazione dei soliti musici: Ellade Bandini, Roberto Manuzzi, Antonio Marangolo, Pierluigi Mingotti e Vince Tempera. È composto da otto tracce che ripercorrono temi classici della discografia del Maestrone. Si parte con Canzone di notte n. 4 che continua la saga cominciata proprio ne L’isola non trovata. Una ballata dalla durata gucciniana (8 minuti) che inizia con due voci, rappresentanti due prozii del cantautore, che lo rimproverano per la luce accesa di notte per la lettura. Subito salta all’orecchio il confronto col passato: prima la notte era fatta per «andarsene per strada od osterie» oggi si spera in una «notte tranquilla che mi fai trovare forse la pace». Fin da questa prima traccia si possono notare due componenti presenti in tutto il disco: il confronto col passato e le continue domande lasciate senza risposta. Così canta Guccini nel bel mezzo della canzone: «Ma tutto cambia attorno e già lo sai, ti gira dentro e fuori la tua età. E allora notte che mi porterai rimpianto, quiete, noia o verità? O indifferente a tutto te ne andrai senza pietà?». Si continua con L’ultima volta, brano che ha anticipato l’uscita dell’album. Ancora uno sguardo al passato e uno al futuro. Dopo sei strofe a ricordare «quei giorni troppo lontani» in cui tutto «era presente e futuro» la canzone sembra terminare per poi riprendere con un’ultima “ultima volta” quando «vedrai il sole albeggiare e la pioggia ed il vento soffiare ed il ritmo del tuo respirare che pian piano si ferma e scompare».

Non poteva mancare il Guccini cantastorie. Ecco quindi Su in collina e Quel giorno d’aprile. La prima è una canzone che già da diversi anni propone nei suoi concerti. È la traduzione letterale di una poesia dialettale di Gastone Vandelli intitolata Mort en culleina che racconta una dura storia di partigiani: di Pedro, Cassio e del narratore che devono incontrare “il Brutto” ma lo trovano morto e con un cartello che riporta la scritta «questa è la fine di tutti i partigiani». Quel giorno d’aprile prosegue il cammino iniziato con Auschwitz e portato avanti con Primavera di Praga e racconta il 25 aprile di un bambino che è combattuto fra la felicità per l’avvenuta liberazione e l’attesa del padre ancora non tornato. Si chiude con il desiderio di non dimenticare la storia e i valori che porta con sé: «Suona ancora per tutti, campana che non stai su nessun campanile, perché dentro di noi troppo in fretta si allontana quel giorno d’aprile». Si va avanti con Il testamento di un pagliaccio, una cruda invettiva sociale nella quale viene annunciata la morte di colui che ingenuamente ha creduto ai «sogni vani di democrazia». Ne viene illustrato sarcasticamente il funerale al quale partecipano tutti i protagonisti della decadenza della società: «uno stilista mago del sublime, un vip con la troietta di regime, e chi si svende per denari trenta; un onesto mafioso riciclato, un duro, puro e cuore di nostalgico, travestito da quasi democratico e che si sente padrone dello Stato». Una schietta denuncia sociale che si chiude beffardamente con un accenno all’Inno di Mameli. Dopo le immancabili canzoni sociali tipiche del Maestrone si ritorna all’introspettiva e ad una nuova dolce descrizione della notte. Notti è l’unica traccia dell’album non scritta completamente da Guccini, un’ennesima riflessione su quelle nottate che «forse le cancellerai, forse le canterai».

Segue Gli artisti, lunga digressione sull’essere artista fatta da colui che si definisce «un umile artigiano» fabbricante di canzoni che «svaniscono nella memoria». Una recensione che si rispetti deve, però, essere anche cattiva e allora si potrebbe dire che forse Gli artisti poteva essere resa migliore, meno piatta e con qualche impennata melodica. L’album si chiude con la title track ed è qui che anche il più duro dei fan fatica a trattenere le lacrime. L’ultima Thule è il brano perfetto per chiudere una carriera come quella di Francesco Guccini, la canzone che nessuno avrebbe mai voluto ascoltare. Entra di prepotenza fra i pezzi migliori del Guccio. Un testo amarissimo che annuncia la triste verità. Si guarda indietro, alla lunga strada percorsa e all’impossibilità di continuare il cammino. Il primo verso Guccini dice di averlo scritto da tanto tempo («Io che ho doppiato tre volte Capo Horn») ed è perfetto come metafora della lunga carriera, ma già dalla seconda strofa si guarda con consapevolezza al presente: «non son più quello e non ho più il coraggio di veleggiare su un vascello morto». «Dov’è la forza che ci circondava? Ora si è spenta ormai, sparita via» canta inesorabilmente prima di fare un bilancio della sua vita, ricordare gli amici andati e chiudere con l’ultima strofa che non lascia nessuna speranza: «L’ultima Thule attende e dentro il fiordo si spegnerà per sempre ogni passione, si perderà in un’ultima canzone di me e della mia vita anche il ricordo». Non c’è nulla da aggiungere se non un malinconico «mi piaccion le fiabe raccontane altre».


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :