E il film parla proprio di questo, del buio della Storia che avvolge chi dalla Storia è rmasto fuori o non ha mai avuto diritto a farne parte. I due personaggi e l’animale dovrebbero essere contadini della campagna torinese, ma Béla Tarr abbandona qualsiasi riferimento storico e imbastisce lentamente, giorno dopo giorno nella vita dei suoi personaggi, la sua palingenesi al contrario, la sua distopia senza salvezza.
Non racconta, il grande regusta ungherese, ma raffigura, insiste sui particolari, sui gesti; quello che ricerca è il ritmo interiore della sua partitura, con i movimenti lenti della macchina da presa combinati in diversi piani sequenza e accompagnati da una colonna sonora in cui il rumore del vento si sovrappone a una musica minimalista immutabile, per creare un ipnotico effetto di cullante sobrieà.
La metafora è evidente, il buio, il vento, la siccità, la fame, il nulla insomma, avvolgono progressivamente i due protagonisti e il loro cavallo. La durata infinita delle scene, oltre a essere impostata sui ritmi della vita contadina di centocinquanta anni fa, è un controstoria rispetto all’evoluziona futura del ’900, l’opposto, cioè, dei quindici minuti di celebrità predicati da Warhol ottant’anni dopo l’episodio che vide coinvolti Nietzsche, un cocchiere e il suo cavallo testardo. Per chi non è entrato nel cono di luce della Storia, il destino è stato quello di oscurità totale, fin da subito, prima ancora che venisse al mondo, per secoli passati e per secoli a venire.
È così anche adesso, per tutti quelli che al massimo possono entrare a far parte di un aneddoto biografico: la Storia è una landa battuta da una tempesta perenne e il cinema di fronte al suo incessante rumore, se si sofferma a pensare a cosa può fare, non può che volgere al nero. Dicono che A torinói ló sia l’ultimo film di Béla Tarr: non farebbe un grinza.