L’ultimo Round (dedicato a Richard Matheson)

Creato il 25 giugno 2013 da Elgraeco @HellGraeco

Questo racconto nasce da diverse suggestioni: Richard Matheson, prima di tutto.
Matheson si è spento a Los Angeles due giorni fa.
Ho pensato di scrivere questo racconto per rendergli omaggio.

Prende spunto da un suo lavoro: Steel (recensito da me QUI), dal quale a sua volta hanno tratto un film, Real Steel (recensito QUI)
E prende spunto anche dall’universo narrativo che in questi mesi mi sto divertendo a creare, del quale ho già accennato in questo articolo.

Ci sono i cyborg, una tecnologia dal gusto vintage e una malattia che sta falcidiando la popolazione…

Spero possa piacervi. Buona lettura.

***

L’ultimo round

Il televisore gracchia attaccato al braccio di metallo, riempito di scariche grigie. L’audio saltella. Dai frammenti della telecronaca, sembra che Gecko si sia aggiudicato il quarto round. Quattro round a due, contro Pole il Gladiatore. Entrambi B7, ultimo match, posta altissima.
Lecco il sangue che cola dalle nocche, finisco di strappare coi denti il pezzo di nastro adesivo, lo applico sulla scatola dello schermo, rossa e spaccata. Do un’altra botta, col palmo. Per un attimo l’immagine si sintonizza, Gecko sferra un montante che non fa in tempo a trovare il bersaglio, il mento del Gladiatore. Impreco, afferro la manopola e la ruoto fino a spegnere l’apparecchio. Chissà se l’ha schivato…
Prendo una birra e un petto di pollo in un piatto di carta dal frigo, e la scorgo dal finestrino, Kelly, seduta sulla scaletta della roulotte di fronte alla mia; short di jeans, canotta, capelli neri al vento caldo della sera, chitarra. Sblocco il fermo e tiro giù il vetro, entrano gli accordi misti al profumo dei fiori di saguaro e all’arrosto.

Lo sguardo corre lungo il camper, la moquette color mostarda, i mobili stretti di legno scuro, il trasformatore sul pavimento con due luci verdi su tre, l’ultima ancora rossa; seguo il filo, lo spinotto conficcato nel braccio, tagliato da una ciocca di capelli biondi.
Lei ha lo sguardo fisso ai pannelli grigi del soffitto, le pupille dilatate e la bocca socchiusa, il petto immobile, il piede appoggiato contro il vetro. Come una morta.
È l’unico suo difetto. Suo e di quelle come lei: il loro sonno non è naturale, sa di eternità, quella che non vorremmo mai conoscere.
Stappo la birra, apro la porta e mi sistemo sugli scalini. Il cielo è arancio e porpora, i cactus ci sporgono contro, come tante mani che gli fanno gestacci: è la risposta della natura a Dio.
Kelly continua a strimpellare, mi rivolge un sorriso. Sulla sdraio, Jack solleva la bottiglia al mio indirizzo. Alzo la mia lattina.
«Tu hai linea?» urla.
«Neanche per il cazzo. Vinceva Gecko quattro a due, poi più niente. Tu, la radio?»
«Fottuta anche quella. E sì che avevano detto che la cosa diventava illegale da mezzanotte, cristo!» Allunga il braccio e sistema i tizzoni nel piccolo barbecue con un ramoscello.
Mando giù tre sorsi, è appena fredda. Penso al frigo che sta andando a puttane come tutto il resto, quaggiù. E nel mondo. L’anno scorso sono nati appena duemila bambini. Mi cola una goccia di sudore lungo la tempia e una zanzara sibila nell’orecchio.
«Hai scommesso, per caso?» fa Jack.
«Chi non l’ha fatto?»
«Quelle le pagano lo stesso, l’ha detto Ted. Me l’ha assicurato. Be’, almeno a quelli che hanno vinto.»
«Ted gestisce un pub nel deserto, su una strada morta, che vuoi che capisca di leggi e di…»
«Fammi indovinare: hai puntato su Gladiatore.»
«Già…»
Jack ride sguaiato; la pancia salta sotto la maglietta, sporge di sotto. «Tanto da domani ci saranno gli incontri illegali, figurati» afferma, placido, la tranquillità di chi sa il fatto suo, o crede di saperlo. Poi aggiunge: «Kelly, vieni qui, piccola. Vieni ad abbracciarmi.»
Kelly si alza, docile, posa la chitarra di fianco alla scaletta, contro la roulotte, e va alle spalle, mettendogli le braccia al collo. Gesti studiati, delicati, affettuosi, come da programma di intrattenimento 1.01. Jack gradisce, le accarezza il polso. Le sussurra che è la sua piccolina. Gradiamo tutti, ci crediamo. Ci crediamo davvero. Ci è rimasto questo.
Penso alla foto di mia moglie, nel portafogli. È morta a diciassette anni. Le era rimasto solo un occhio azzurro, l’altro grigio opaco. E il fetore che emanava la pelle… La moglie di Jack ne ha fatti diciannove, il fegato era talmente consumato che era diventata gialla, a chiazze marroni.
«Cosa credi sia successo a Minneapolis?» chiedo.
«Intendi dire cosa è successo davvero? Che importa? Hanno deciso: da stanotte niente più combattimenti, entro novanta giorni dovremo rinunciare anche alle nostre ragazze. Fanno male alla salute: quella mentale.»
«Ci credi sul serio, alla ribellione?»
«No. Non c’è coscienza, in loro. Non hanno memoria, solo un programma. Sono solo seghe digitali. Non vogliono che ci masturbiamo. Oppure pretendono che torniamo ai vecchi metodi: solo le mani.» Ridacchia. «Suonami qualcos’altro, piccola.»
Kelly ubbidisce.
Sollevo l’angolo della bocca, ma è più una smorfia.
Spunta il cane, annunciato da uno scalpiccio, dall’angolo del mio camper, come ogni sera. Scodinzola tanto forte che gli balla il culo, le orecchie attaccate al cranio tanto da sparire, si lecca i baffi. Gli lancio il pollo. Lo afferra al volo e si allontana di dieci passi.
Saluto Jack, rientro. Controllo l’equipaggiamento per la miniera, per domattina.
La terza luce del trasformatore diventa verde. Stacco lo spinotto e mi siedo sul letto, di fianco. L’accarezzo. Le pupille si stringono, la testa ha un sussulto, mette a fuoco la mano accanto al viso e poi il mio volto, sorride. Si sporge e mi bacia, le labbra bollenti dopo la ricarica.Penso ai novanta giorni. E nient’altro, i filosofi ci hanno già perso troppo tempo, sulla fine del mondo, da quando le donne hanno cominciato a morire. E sui cyborg, e sull’annientamento dello spirito dell’uomo, come lo chiamano loro.
Io penso solo ai novanta giorni, alla scadenza. Dopo verranno a ritirarla.
Vado al televisore, ruoto il pomello, l’immagine s’allarga piano: sono al decimo round. Sono pari.
Ho il biglietto della scommessa in tasca. Lo tormento con la punta delle dita.
«Vuoi che ti prepari la cena?» mi chiede lei.
Annuisco.
Rimugino su quanti soldi ci vorrebbero per scappare, su quel folle che ha combattuto contro un cyborg ed è sopravvissuto a stento. Sul profumo dei fiori di saguaro, e su quello programmato dei capelli di lei: fragranza 3.07. Dolciastro e pastoso, effetto collaterale della ricarica…
È appena iniziato l’ultimo round.

Steel, from The Twilight Zone


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