Come Glenn Gould, anche il poeta aveva sempre temuto l’umidità delle osterie austriache, il musicista, e del suo distaccamento abitativo, il poeta, aveva paura di prendersi, Glenn, una malattia mortale in quelle osterie austriache che sono sempre così mal arieggiate o addirittura non lo sono affatto.In realtà – nelle nostre osterie – ,questo scrive Thomas Bernhard, molti avventori si prendono una malattia mortale, gli osti non aprono le finestre neppure d’estate, e così l’umidità può annidarsi nei muri per sempre[i]. Come in quella cosiddetta casa, dove è tenuto il poeta. Lì, la finestra che c’era dove c’è il camino, è stata chiusa perché i figli prediletti della suocera dovevano arieggiarsi sopra abusivamente e a danno eterno di chi andava tenuto sotto.Questa storia dell’umidità e dell’abusivismo edilizio e delle appropriazioni indebite all’interno di una stessa famiglia, ammesso che quella formata sia un’effettiva e naturale famiglia,come d’altronde ben sapeva Wertheimer, è abbinata al cattivo gusto che si è ormai diffuso dappertutto, non certo la proletarizzazione delle nostre locande, fosse anche quella di “Sciankètt” o la mitica “Bufalara”, intendo l’appropriazione indebita di tutto ciò nel territorio del poeta, tra la strada statale 92 e l’ex strada statale 106.Una sorta di infame comunismo di questi infami comunisti, i briganti delle tre bisacce, i quali, dovunque oggi ci guardiamo intorno, vediamo e sentiamo questo turpe e micidiale ombronismo, che ha permeato di sé ogni cosa.Come le stanze che abita il poeta, i cui muri impregnati di umidità sia d’estate che d’inverno, non cambia mai niente, l’umidità estiva è più micidiale e mortale dell’ombronismo, come le stanze di quella locanda di cui parla Thomas Bernhard, queste stanze non hanno nei muri il chiodo della leggenda araba, quella in cui uno che vende i muri ma non il chiodo, cosicché possa entrare in casa quando cazzo vuole per appendere o togliere qualsiasi cosa o niente dal suo chiodo.Così il poeta mise un bel chiodo alla parete della finestra, e vedeva sempre come questo suo chiodo fosse una sua cugina, per modo di dire, una con cui mai aveva detto “Ciao, come sta il conno esemplare unico della nostra dinastia? E’ davvero così pieno e sempre turgido come si dice in giro?”; né semplicemente “Sai cosa mi ha detto quella giovane zingara così gnocca patafisica l’altro giorno facendo finta di leggermi la mano?”, e lei: “Cosa?”, e lui: “Non te lo direi mai e poi mai, rovina del mio fallo!”
[i]Cfr. Thomas Bernhard, Il soccombente, © 1983; trad.it. sesta edizione gli Adelphi, Milano 2010: pag.51.[ii]Ibidem: pag.53.