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“L’umiltà del male” di Franco Cassano alla prova della realtà

Creato il 10 maggio 2011 da Sulromanzo

L'umiltà del maleLa forza di un saggio si misura in rapporto alla realtà.

Sono in treno, di ritorno a casa dopo una giornata di lavoro, quando inizio a leggere L’umiltà del male di Franco Cassano (Laterza, 2011).

Sono affascinato dall’ipotesi iniziale di un male che, nella lunga sfida contro il bene, sembra partire con un margine di vantaggio difficile da annullare, per la sua capacità di guardare all’essere, laddove il bene si radica nell’oltre utopico del dover essere. Il dilemma tra l’etica della realtà e l’etica della perfezione è un invito a nozze. Sposo la tesi di Cassano secondo cui il Grande Inquisitore di Dostoevskij è il Potere che non riconosce in Gesù il suo mandante originario. Anzi, gli impone il silenzio per non turbare la verità su cui quel potere si fonda. Sono intellettualmente entusiasta dell’innovativa identificazione tra Grande Inquisitore e Potere.

“Biglietti, prego?”, il controllore mi richiama alla quotidianità.

“Abbonamento”, rispondo infastidito per l’interruzione.

“Posso vederlo?”

“Certo” tiro fuori l’abbonamento dal portafogli e glielo porgo.

“Un documento di riconoscimento, prego.”

“Eccolo.”

“Bene, ma l’abbonamento non è obliterato.”

“Come?”

“Sì, va obliterato all’atto del primo utilizzo su tutti i mezzi.”

“Guardi qui.”

“31 Marzo 2011 ore 07,18.”

“Ecco.”

“Ma l’abbonamento è riferito ad Aprile 2011.”

“Lo so, ma l’ho preso il 31 Marzo e l’ho obliterato immediatamente per paura di scordarlo.”

“Non è regolamentare.”

“Come?”

“L’abbonamento va obliterato all’atto del primo utilizzo e il 31 lei non poteva utilizzarlo.”

“Ma io non l’ho usato. Guardi, ho anche l’abbonamento di Marzo.”

“Non serve, l’infrazione contestata è su quello di Aprile.”

“Ma quale infrazione?”

“Lei ha usato il 31 Marzo l’abbonamento che invece andava usato da Aprile.”

“Ma non è vero, l’ho solo obliterato… e lei lo sa… ha visto... e poi mi conosce. Ci siamo visti su questo treno tutti i giorni per 10 anni.”

“Sì, io la capisco... e sono anche d’accordo con lei, ma loro mi dicono di fare così e io sono costretto ad applicare la legge.”

“Ma loro chi?”

“La Regione, la Compagnia, il sistema.”

“Il sistema?”

“Eh, il sistema dei trasporti funziona così”, mi liquida porgendomi la multa.

La ripiego e ritorno a Cassano e al suo Grande Inquisitore. Ma stavolta c’è qualcosa che non mi torna. La transustanziazione mi lascia perplesso. E se il G.I. non fosse il Potere in sé ma solo un suo emissario? Se il G.I. fosse come il controllore che ho incontrato? Un funzionario che esercita e amministra un potere in nome e per conto del Potere che gliene conferisce autorità. Pur riconoscendo Cristo, lo condanna perché non è più funzionale alla conservazione di quel Potere rispetto al quale, anzi, rappresenta un elemento di eversione. Il G.I. è il chierico, come il burocrate della soluzione finale Eichmann, o il funzionario pubblico, che boccia una pratica perché la firma è in basso a destra anziché a sinistra, o la Santanché, che indìce una rivolta contro la magistratura. Il rischio di questi zelanti funzionari è l’obbedienza attiva che non conosce eccezioni o autonomia di riflessione, per un senso di riconoscenza trasformata in accondiscendenza. Come il G.I. è stato nel deserto e ha sperimentato la posizione di Gesù, anche il controllore è stato viaggiatore, ma ora si trova ad adempiere un altro ruolo. E può, dopo 30 anni di servizio, pensare di ribellarsi al Sistema? Anche la Santanché ha conosciuto un’altra destra in A.N., ma possiamo immaginare che ora abbandoni le posizioni di potere e prestigio per ritornare a quelle condizioni, tra l’altro momentaneamente sperimentate nell’avventura con Storace?

Franco Cassano
Comincio a nutrire dei dubbi sulla posizione di Cassano, ma vado avanti nella lettura attraverso la zona grigia di Primo Levi, grazie alla quale Cassano aggiunge una seconda tesi all’ipotesi iniziale: il male trae forza dal rendere complici le vittime, di modo che non possano ribellarsi, mentre annienta, con la morte, la denigrazione o il discredito, gli esempi di chi si ribella. Per Cassano, questo è segno della capacità del male di esercitare un potere sugli uomini grazie alla dimestichezza con la loro debolezza, al suo saperla accettare per volgerla a leva di subordinazione e dominio. Siamo nei campi di concentramento, dove le vittime erano morituri senza scampo e l’unica speranza di sopravvivenza era il collaborazionismo. Inizio ad avere un altro dubbio. Il salvarsi la vita diventando aguzzini equivale al diventare ministri o sottosegretari per un voto di fiducia svalutato a complicità? Esiste un’affinità tra gli Ebrei collaborazionisti e il Gruppo di Responsabilità Nazionale?

Ripongo il libro nella borsa e mi preparo a scendere dal treno.

Sia per il G.I. che per i Direttori dei Campi di Sterminio, il nome è secondario al ruolo.

Chi è Richard Baer? Il nome potrebbe non dire alcunché. Ma se lo accompagniamo alla mansione svolta nell’ombra, allora la luce ci illumina sulle sue colpe.

La burocratizzazione del potere dispotico è la prima fase attraverso cui la coscienza individuale è annientata nel nome dell’essere ligi al dovere.

Cosa succede se appare una contraddizione?

Pasqualino Settebellezze, di ritorno dal campo di concentramento, non si vede più come il fratello delle sette bellezze, ma come collaborazionista. Allora sputa sull’immagine riflessa allo specchio, ingannandosi ed ingannandoci. Javert, invece, consapevole che l’identificazione tra l’io e la funzione è insolubile, si uccide per superare quella funzione, messa in crisi dalla figura di Jean Valjean. La credibilità di una crisi etica è direttamente proporzionale alla rinuncia non solo all’alleanza al potere ma anche ai privilegi concessi per funzionalizzare l’alleato, come Fini dovrebbe sapere.

Salgo le scale del palazzo dove abito e la luce mi invita a riprendere la lettura. Sono nella disputa tra Gehlen e Adorno mentre entro nella camera da letto. Mi sento partecipe, oscillante tra l’ottimismo di Adorno e il pessimismo di Gehlen. Chi dei due ha ragione? Mi vedo a dirimere la questione, pensando all’uomo dapprima come animale naturalmente orientato all’alienazione e alla subordinazione al potere e poi come soggetto in grado di emanciparsi dal peso della disperazione. “Chi dei due vuoi eliminare? Per votare, manda un esseemmeesse”, istruisce la voce della conduttrice. “Però ha ragione Michele”, sento commentare mio padre. Che stia diventando come loro? Che mi stia dibattendo tra la ragione e il torto di un dibattito ormai superato? Chi ha ragione tra Adorno e Gehlen? Semplicemente è indicibile, perché per dirlo dovremmo aspettare la fine dell’umanità e chiederci, un attimo dopo, se l’emancipazione di Adorno ci sia effettivamente stata. Uno scenario impossibile per una questione insolubile.

A lasciare la casa-isola senza poter più ballare è Mario”. E se fosse questa la nuova malvagità? Piccole verità rivelate nel giro di cinque minuti sulla base di un televoto che trasforma la partecipazione in interazione, esimendoci dal riflettere su questioni di più lunga durata? Il calo di attenzione, costruito tassello dopo tassello, contribuisce a rendere superfluo l’interrogativo di Adorno e Gehlen. La vera domanda è se qui ed ora, in Italia, avremo ancora la pazienza di dedicarci a questioni che richiedono più di dieci minuti, pubblicità inclusa.

Mi siedo sul letto un po’ immalinconito, ma continuo a leggere, addentrandomi nella parte più interessante del saggio, in cui Cassano analizza i nuovi interpreti della Leggenda del GrandeInquisitore: I sostituti teorici e simbolici dei vecchi dispositivi di comando del Grande Inquisitore (miracolo, mistero, autorità), prodotti dal capitalismo dei consumi (merci, edonismo, evasione), sono efficaci come quelli(77). Il G.I. diventa il Grande Piazzista: la società dei consumi, proprio come il G.I., è indulgente nei riguardi di tutte le debolezze dell’uomo: “suscita i desideri e i sogni degli uomini, li asseconda, li forma e li soddisfa, come nessuna società perfetta sarebbe capace di fare” (63).

Un amico in comune: lo slogan di un candidato PDL al Consiglio Comunale di Napoli mi si insinua tra i pensieri per dissonanza con il G.I.

Il paragone tra G.I. e Grande Piazzista non mi sembra calzante. Laddove il primo aveva il suo punto di forza nella segretezza dei processi e nella demonizzazione dei desideri, il secondo fa leva sulla normalizzazione del vizio a desiderio da soddisfare tramite la merce. Il primo punta sul peccato, il secondo sul desiderio innocentizzato da una forzata esibizione. Paradossalmente, in questo mutamento di scenario, il G.I. più che al G.P. somiglia alla teoria degli inneggianti al peccato, i dodicimila santi che Cassano invita a liberarsi dell’aria di superba superiorità, causa della loro sconfitta rispetto al G.P.

Mi concedo il gioco dell’“indovina chi?” e vedo Berlusconi nel ruolo di G.P. e la Sinistra Italiana in quello dei dodicimila santi. E allora inizio a guardarli da vicino, richiamandomeli alla mente: Bersani, Bindi, Vendola, De Gregorio, Santoro, Vauro, Di Pietro, D’Alema… Una leggera vertigine m’assale.

E se la loro sconfitta fosse dovuta non all’eccessiva superiorità morale ma alla sua infondatezza? Se l’autonegazione dei vizi fosse il gioco del bambino che nasconde le mani ma lascia in bella vista il musetto sporco di nutella? Il G.P. è riuscito a mostrare i meccanismi del gioco svelando i dodicimila santi a G.I.. E se la via d’uscita fosse la rottura dei meccanismi smascherati? Se il tg3 la smettesse di essere un tg4 intellettualmente più sottile? E se Santoro rinunciasse a recitare il ruolo di anti-Sgarbi? E se la De Gregorio si ribellasse al ruolo di anti-Belpietro? Questo sarebbe spiazzante! I dodicimila santi che in blocco cambiano pelle e rinunciano a quel ruolo che ormai fa il gioco del G.P..

Demoralizzato e senza speranze, mi ritrovo addormentato, come la vedova che piange il marito e si dimentica del figlio.

Vengo destato solo dalla sveglia alle 06,20. Mi accorgo di essermi addormentato vestito dalla sera prima, guardo il libro di Cassano che ho ancora tra le mani e mi sorprendo di aver sognato di trovarmi con lui a Dresda e di essermi sentito come uno dei suoi abitanti che ascoltavano Tannhäuser in sette diverse registrazioni, le confrontavano l’una con l’altra per poi litigare su quale fosse la “migliore, la più alta, la più eccelsa, quella standard”; misuravano mentalmente e sulla carta il distrutto Kurländer Palais, mentre i loro appartamenti marcivano e il legno dell’orditura del tetto si sbriciolava, e così era in tutta la città, questa barca barocca distrutta a colpi di armi da fuoco nel mastello della valle dell’Elba, questo frutto splendente chiuso nell’utero del proprio tempo che correva parallelo: ovunque andassi era la stessa cosa: tavole apparecchiate per il caffè, eierschecke, L’ANTICA DRESDA(Uwe Tellkamp, La torre, Bompiani, 2010).

Un vagito, secco e forte come una fitta di emicrania, si staglia in una domanda: se Berlusconi è il Grande Piazzista, chi è la società dei consumi?

 


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