L’università sottofinanziata e il declino italiano

Creato il 05 febbraio 2013 da Keynesblog @keynesblog

La disoccupazione giovanile in Italia ha raggiunto ormai livelli intollerabili (37%). Le sue cause sono spesso rintracciate in "un eccesso di istruzione", a fronte di un sistema d'impresa che non richiede manodopera troppo qualificata. Ma le politiche messe in atto per risolvere il problema non fanno altro che assecondare un modello di sviluppo destinato a perpetuare il declino.

Il tema della disoccupazione giovanile - attestatasi al massimo storico del 37% - è pressoché assente nei dibattiti di questa campagna elettorale. La tesi dominante fa riferimento alla convinzione, ampiamente divulgata nel corso degli ultimi anni, secondo la quale la disoccupazione giovanile è molto elevata perché i giovani italiani sono eccessivamente istruiti. Una popolazione giovanile molto istruita - si argomenta - trova difficilmente occupazione, dal momento che le nostre imprese - salvo rare eccezioni, di piccole dimensioni e poco innovative - non hanno bisogno di un'ampia platea di lavoratori qualificati. L'implicazione di politica economica che ne deriva consiste nel ridurre l'offerta di lavoro qualificato, disincentivando le immatricolazioni alle Università, e spingendo i giovani a "riscoprire il valore del lavoro manuale".
Occorre chiarire che si tratta di una tesi falsa e che l'implicazione di politica economica che ne deriva rischia di amplificare il problema, con effetti negativi sul tasso di crescita. La tesi è falsa per le seguenti ragioni.

1) Il numero di studenti iscritti alle Università italiane si è già significativamente ridotto nell'ultimo biennio, sia a ragione della campagna di delegittimazione dell'Istituzione, sia a ragione della consistente riduzione dei finanziamenti pubblici agli Atenei e del conseguente aumento delle tasse, in un contesto, peraltro, di significativa riduzione dei redditi. L'esistenza di effetti di apprendimento sembra aver rivestito un ruolo significativo in questa dinamica: avendo verificato - dall'esperienza delle precedenti generazioni - che laurearsi non conviene, si rafforza la convinzione che ciò sia vero. Il CNVSU - Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario - ha evidenziato che, nell'anno accademico 2010-2011, si sono immatricolati in Università italiane meno di 6 individui su 10 giovani diplomati. Nel Rapporto OCSE 2010 ("Education at a Glance") si legge che il numero degli studenti universitari che conclude il percorso di studi si aggira attorno al 30%. Si osservi che ciò accade in un contesto nel quale è già modesto il numero di immatricolati e di laureati. L'Eurostat rileva che, a riguardo, l'Italia è ben al di sotto della media europea: nel 2011 la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro in età compresa fra i 30 e i 34 anni in Italia si è attestato, in Italia, al 20,3%, a fronte di una media europea del 34,6%, con Paesi che superano il 40% (Gran Bretagna, Francia e Spagna).

2) Un numero crescente di giovani laureati è già in condizioni di sotto-occupazione intellettuale, ovvero svolge mansioni per le quali non è richiesto il titolo di studio acquisito. Come certificato nell'ultimo Rapporto ALMALAUREA, l'utilizzo delle competenze acquisite con la laurea è mediamente molto basso, così che si può stabilire che l'argomento che vuole i giovani italiani "schizzinosi" non trova adeguati riscontri nei fatti.

Contrariamente alla tesi dominante, si può stabilire che la disoccupazione giovanile, anche riferita alla quota di giovani laureati, è in aumento perché il tasso di crescita è in riduzione. E' palese che un'economia che registra un tasso di crescita negativo nell'ordine del -2.4% non può produrre aumenti della domanda di lavoro, né di quella rivolta a individui poco scolarizzati né di quella indirizzata a individui con elevati livelli di istruzione. In più, la tesi dominante non fa altro che prendere atto di un problema e, senza provare a risolverlo, cercare di aggirarlo. Il problema consiste nella scarsa propensione all'innovazione della media delle imprese italiane, a sua volta connesso alle piccole dimensioni aziendali e, non da ultimo, al fatto che la gran parte degli imprenditori italiani ha un basso livello di istruzione. L'ISTAT certifica che la dimensione media delle imprese italiane è superiore, nell'Europa a 27, soltanto a quella della Grecia e del Portogallo. La tesi del "piccolo è bello" - stando alla quale il 'nanismo imprenditoriale' italiano costituirebbe un fattore di vantaggio competitivo - ha legittimato la sostanziale assenza di una politica industriale in Italia, almeno a partire dall'ultimo trentennio. E' bene chiarire che si è trattato di un errore teorico e politico di massima rilevanza, i cui effetti risultano oggi evidenti, con risvolti significativi (e di segno negativo) sulla domanda di lavoro qualificato. Su fonte Almalaurea, si registra che dal 2004 al 2010 la percentuale di lavoratori con alto livello di istruzione assunti dalle imprese italiane si è costantemente ridotta, in controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi dell'eurozona. Si osservi che questo fenomeno non è imputabile alla crisi in corso ed è, dunque, da ritenersi strutturale.

E' difficile motivare la decurtazione dei finanziamenti pubblici alle Università senza far riferimento all'obiettivo di accrescere l'avanzo primario, che - come attestato su fonte Ragioneria Generale dello Stato - viene in larga misura destinato al c.d. fondo Salva Stati, rendendo l'Italia un contributore netto del bilancio europeo. Schematizzando, si può affermare che la sottrazione, nel corso dell'ultimo biennio, di circa il 13% del fondo di funzionamento ordinario agli Atenei italiani è anche servita ad accrescere gli utili delle banche europee. Questa operazione, peraltro, viene posta in essere avendo come vincolo la raccomandazione della Commissione Europea, rivolta a tutti i Paesi membri, in merito all'adozione di misure che agevolino l'aumento del numero di laureati, portandolo almeno al 40% nel 2020. Con crescita demografica pressoché nulla e costante riduzione del numero di immatricolazioni, appare molto verosimile prevedere che questo obiettivo non solo non verrà raggiunto, e che da questo ci si allontanerà molto rapidamente.

Ma ciò che maggiormente desta preoccupazione è il fatto che le politiche messe in atto non fanno altro che assecondare un modello di sviluppo dell'economia italiana che andrebbe semmai contrastato. La questione può porsi in questi termini: salvo rare eccezioni, le nostre imprese sono sempre meno competitive su scala internazionale, soprattutto a ragione del basso contenuto tecnologico dei beni prodotti. Porle nella condizione di disporre di un'ampia platea di lavoratori poco scolarizzati significa incentivare una modalità di competizione basata sulla compressione dei salari, che costituisce l'esatto contrario di ciò che occorrerebbe fare per accrescerne la competitività. E a ciò fa seguito un circolo vizioso: minori profitti derivanti dalle esportazioni implicano minori investimenti e minore occupazione; dunque un decremento della base imponibile; dunque - dato l'obiettivo del pareggio di bilancio - la necessità di ulteriori interventi di riduzione della spesa pubblica, anche sotto forma di ulteriori riduzioni dei fondi destinati al sistema formativo.


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