L’uomo che mangiava gli zingari

Da Villa Telesio

“In Almost Every picture #7″, di Erik Kessels e Joep Eljkens

Dalla parete destra del capannone, cemento grigiastro calcaroso, colava un liquido giallastro, forse ruggine. Salvatore spense la sua sigaretta sotto le scarpe lucide e diede un colpetto naïf al suo ciuffo unto, residuo di qualche doccia fa.

La musica gitana era infernale, quel giorno, e il nostro uomo pensò bene di sottolinearlo al Capo: “Capo c’è da impazzive, Cvisto!”. “Hai ragione Salvuzzo, ma ci sono nuovi clienti, voglio stordirli, estasiarli, farli eccitare: pagheranno bene, vedrai”. “Savà, ma io di queste puttane mi sono stufato, non potvemmo cambiave mevcato?”. Ma già il Capo si era allontanato, seguito dalle bestemmie di Salvatore sulla sua incapacità comunicativa. Che bella parola incapacità, che sposalizio con l’aggettivo comunicativa: sua madre sarebbe stata fiera del piccolo Salvuzzo dalla “r” moscia che imparava parole nuove, imparava giorno dopo giorno ad usarle come si confaceva a un venditore di zingare.

Per la cronaca: quel giorno Salvatore vendette Mirella, una delle sue ballerine preferite, a un danese di nome Sigfrido (proprio così: all’italiana) che impazziva per le sue gambe liscie, per quella pancetta così slava, tintinnante.

Dal capannone vicino al loro risuonava stonata musica Yiddish. “Odio gli ebvrei”, pensò andandosene dal Quartiere Vendite il soddisfatto Salvatore, dopo l’ennesima giornata fruttuosa. “Ciao tesovo”, disse non appena la sua piccola figlia bastarda salì in macchina, fresca fresca dalla scuola, come un ovetto perbene.