L’uomo che verrà di Giorgio Diritti. Per celebrare il 25 Aprile

Creato il 21 aprile 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
  • Anno: 2009
  • Durata: 117'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Giorgio Diritti

Non è proprio un film sulla Liberazione, L’uomo che verrà, ma parla della strage di Marzabotto (tra fine settembre e inizio ottobre del ’44), conosciuta anche come eccidio di Monte Sole, per i villaggi alle pendici del monte che ne sono stati vittime. Siamo in provincia di Bologna: 770 morti in quei giorni, 955 dall’estate, 198 quelli dell’episodio che, per la prima volta al cinema, ci è stato raccontato da Giorgio Diritti nel 2009 ed ora viene riproposto da RaiMovie. Un crimine di guerra, ad avvalorare ancora di più l’importanza della Liberazione, su cui noi abbiamo fondato identità, cultura, appartenenza, e che non è mai commemorata abbastanza nel suo significato profondo.

Giorgio Diritti afferma che solo per sottrazione si possono raccontare l’orrore, la strage, la carneficina. E lui l’ha fatto con la delicatezza che gli è propria, la sobrietà, l’antiretorica, ma senza nulla togliere all’emozione; non a caso è allievo di Ermanno Olmi, e si vede. Tanto da aver tagliato, durante il montaggio, la scena dei fascisti che risalivano la collina per terrorizzare la popolazione, perché era qualcosa di “già visto”, perché non voleva rendere nella maniera solita la logica dei buoni e dei cattivi, perché tanto l’epilogo della storia parla da sé. C’è stata qualche polemica, per questo, ma non vale neanche la pena di parlarne.

Sottrarre, nel cinema, vuol dire non cedere mai al narcisismo di un’immagine, alla stucchevolezza, al compiacimento. Neanche creare una tensione troppo forte da subito, con sequenze che fanno soffrire troppo o, quel che è peggio, mettono in atto meccanismi difensivi proporzionali alla crudezza della narrazione. Ricordate il cappottino rosso di Schindler’s List?

Giorgio Diritti invece ci racconta la vita Monte Sole, dura, si pensa, ancor prima dell’occupazione tedesca; la lotta quotidiana che ora si è fatta più intensa, la chiusura verso il nuovo, ora più forte, se una donna giovane che esce dal paese è immaginata come serva o come puttana dalla stessa madre. Ed è ripetitiva come quella di Chersogno, nel primo film del regista, dove il vento che faceva il suo giro era simbolo del ricongiungimento al punto di partenza, anche quando era sembrato  possibile il cambiamento.

Non è una visione idilliaca quella di Marzabotto, come non lo era quella di Chersogno. Realistica, piuttosto (soprattutto nei dialoghi in dialetto, sottotitolati); di un realismo che ci fa aderire fino in fondo ad un mondo così lontano da noi, ma neanche tanto, perché le nostre radici, pur dimenticate, non sono poi così distanti. La vita contadina un po’ ci appartiene, anche se non l’abbiamo vissuta: quelle riunioni di famiglia mentre gli adulti raccontano che a noi sono state raccontate;  i desideri di fuga verso un altrove quasi mitico (Bologna, Milano e perché no l’America) come mitica era la paga per tutte le ore di lavoro; l’accoglienza del viandante. Ma la vita contadina è anche fatica, analfabetismo, rassegnazione, la pioggia inopportuna che può guastare il raccolto e ora i tedeschi e i partigiani a pretendere il pane.

Tanto che Maya Sansa ha spento il suo splendido sorriso per un’ espressione molto provata, ad ogni inquadratura; qui è Lena, una madre che ha perso il suo bambino ed ora ne aspetta un altro, mentre al peso della vita e della gravidanza si aggiunge il dispiacere per la figlia, Martina, che la morte dell’altro ha reso muta.

Lo sguardo di Martina si posa sulle incomprensibili cose degli adulti: gli amori, la guerra, la morte. Osserva e agisce, Martina, liberamente: la sua diversità, oltre la fanciullezza, garantisce indulgenza da parte dei famigliari, mentre l’ostinazione a tacere le ha dato un modo più profondo di soffermarsi sugli eventi. Seguendola, anche noi vediamo come si muovono i tedeschi e i partigiani; ascoltando gli uomini e le donne di casa impariamo cos’è la violenza di cui non si può far parola. Martina prova a scriverne in un tema, ma verrà sgridata, quasi schiaffeggiata dalla madre.

Di Martina, di Lena, del padre Armando (Claudio Casadio, credibilissimo!), della zia Beniamina (Alba Rohrwacher) e di Monte Sole vengono raccontati nove mesi, dalla vigilia di Natale al giorno della strage, il tempo di una gravidanza, l’attesa del fratellino di Martina: solo lui può colmare il lutto che l’ha resa  silenziosa; è come se la bimba intuisse quella lezione  che noi stentiamo a fare nostra, lo stretto legame tra la vita e la morte. E di morte Martina a soli otto anni ne ha vista e ne vedrà fin troppa.

Può tollerarla, però, perché, come ha detto Giorgio Diritti, da bambini una rimozione quasi automatica ci protegge; sono troppe le cose che Martina non può capire, non può giustificare. E noi, attraverso i suoi occhi, che sembrano diventare sempre più grandi, riusciamo a vedere un po’ con la stessa genuinità, con lo stesso smarrimento e stupore non solo l’insensatezza della guerra, ma il mistero della vita che procede sotto i nostri occhi. Dalla neve di Natale alle prime lucciole, dall’inverno alla primavera  all’estate……ma non ci sarà autunno in questa storia e il ciclo non si ripeterà, il vento non farà il suo giro.

Il racconto dei giorni e delle stagioni, della famiglia allargata e della cascina di Monte Sole rende ancora più atroce l’eccidio; ogni persona preziosa e ogni morte intollerabile. Perché ogni vita ci è stata resa vicina, quella di ciascun bambino, di ogni anziano, ogni donna, del prete, degli sfollati illusi di trovare un rifugio sicuro. Anche noi, come Martina, alla fine del film siamo senza parole, con lo stesso struggimento di uno spettatore che ha detto: “Quando sono uscito dal cinema ho sentito l’odore dell’aria”.

L’uomo che verrà ci regala realismo e poesia. D’altra parte lo stesso regista ha avuto modo di dire: “Amo il cinema nel momento in cui c’è un’emozione, che ti fa uscire dal vincolo della quotidianità  e ti fa sentire l’abbraccio del mondo”. La scuola di cinema da lui fondata si chiama addirittura L’aura e ha sede ad Ostana, luogo stupendo ai piedi del Monviso, dove è stato pensato e scritto Il vento fa il suo giro, dove si respirano, immaginiamo, realtà e suggestione insieme.

Margherita Fratantonio 


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