Quanto c’è di naturale e quanto di culturale nell’uomo animale politico teorizzato da Aristotele? E quanto nell’uomo lupo per l’uomo affermato da Hobbes? Temo che una discussione in proposito non avrebbe fine, per il semplice motivo che natura e cultura non sono contrapposte, come il pensiero dominante continua a raccontare, ma strettamente correlate. Il confine tra esse si perde talmente lontano nella notte dei tempi da non essere più distinguibile. Non c’è cultura senza natura e non c’è natura senza cultura; senza l’istinto ad andare oltre le generazioni, l’uomo non avrebbe mai creato cultura; senza l’interrogativo culturale sul mondo naturale, la natura ci sarebbe ugualmente stata di per sé, ma non come concetto e nessuno avrebbe mai pensato di distinguerla dalla cultura. Se é innegabile una spinta innata verso la polis negli uomini, è anche vero che la Polis si compie dopo un lunghissimo percorso culturale; e questo vale anche per il clan, la famiglia la tribù: ogni forma di organizzazione sociale degli uomini è frutto di esperienza tramandata oltre le generazioni, di cultura.
E la stessa autorevole e comprovata asocialità hobbesiana, quanto è effettivamente istintiva e quanto indotta da elementi culturali quali le leggi, l’organizzazione del potere e la religione? Il potere, in tutte le sue forme, deve si favorire la collaborazione, ma anche la competitività, per garantirsi l’autoconservazione dal pericolo derivante da eccessi collaborativi che possono portare alla coscienza nella comunità della possibilità dell’autonomia, ma anche dall’anarchismo generato dall’eccesso di competizione. Le uniche prove provate pro o contro le due posizioni sono le esperienze reali storicamente realizzatesi; purtroppo, a metterle sui piatti della bilancia, le probabilità di una sostanziale equivalenza temo che siano molto alte. Tanta è la spinta alla collaborazione verso una collettività demiurgica del bene comune, tanto è l’impulso dell’individuo a prevalere sugli altri, fino alla sopraffazione.
Di più: il progresso, tecnico o spirituale che sia, necessita in pari dose di componenti collaborative e competitive. L’unità degli intenti non porterebbe che ad un’involuzione, se non fosse corredata dalla competizione, attraverso la quale gli intelletti individuali arrivano a formulare idee, successivamente sviluppate collaborativamente per trovare soluzioni sempre più efficaci ai problemi comuni. La politicità dell’uomo, ammesso che se ne possa parlare in senso pieno, è il frutto dell’equilibrio tra individualismo e collettivismo. Quest’ultimo, a mio parere, è l’elemento più meditato e culturale. Lo stesso concetto di politica apre il campo ad ambiguità. Che cos’è politico? Lo stare insieme per convenzione, osservando regole comuni, usufruendo e contribuendo alla conservazione del bene pubblico, nel relativo esercizio della propria libertà e nel rispetto di quella altrui? O piuttosto, per essere pienamente politici è necessaria una coscienza partecipativa e una condivisione del bene pubblico oltre la rappresentazione, convinta, genuinamente solidale?