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L’URSS, il premio Nobel del 1965 e la candidatura di Guareschi.

Da Paolotritto @paolo_tritto
L’URSS, il premio Nobel del 1965 e la candidatura di Guareschi.

Guareschi. Il caso Pasternak, Candido, Anno XIV, n.45

Poco dopo la pubblicazione su questo blog di un post dedicato alla grande poetessa Anna Achmatova, nel quale si sosteneva tra l'altro che sarebbe stato giusto conferire a lei il premio Nobel per la letteratura, l'Accademia Svedese ha desegretato le nomination del premio relative all'anno 1965. Sappiamo adesso, con certezza, che l'Achmatova era tra i candidati.

In Italia la notizia è passata come la rivelazione della mancata attribuzione del Nobel a Giovannino Guareschi, scrittore di successo ma emarginato, se non proprio perseguitato, dal potere culturale italiano. Come, del resto, emarginata e perseguitata più o meno per i medesimi motivi era stata la poetessa russa in Unione Sovietica. C'è però qualcosa che unisce i due scrittori in questa vicenda, qualcosa di più di una generica opposizione al comunismo: la vicenda del conferimento del Nobel del 1958 a Boris Pasternak, amico di Anna Achmatova, autore del romanzo Il Dottor Živago; premio che clamorosamente Pasternak fu costretto a rifiutare, cedendo alle pesanti pressioni subite da parte del regime sovietico.

Paradossalmente, questa brutta vicenda si inserisce nel clima del cosiddetto "disgelo" che si ebbe nelle relazioni internazionali quando si insediò al Cremlino l'audace Nikita Chruščёv, clima che avrebbe dovuto favorire una più ampia libertà, a rigor di logica - se si può parlare di logica per la politica di Mosca. L'idea di Chruščёv era quella di riportare l'Unione Sovietica a sedersi al tavolo delle grandi potenze mondiali, dalla quale era ormai estromessa per gli efferati crimini di Stalin. Particolarmente promettente si presentava l'avvio di un dialogo all'interno del mondo culturale, soprattutto se si guardava a quello che si muoveva in Italia, dove operava proprio con questo scopo la Comunità europea degli scrittori fondata da Giancarlo Vigorelli, cui aderivano intellettuali sia dell'Est sia dell'Ovest.

Ancora più paradossale è la motivazione che portò a fare "pressioni" su Pasternak, pressioni che in realtà erano vere minacce. Ufficialmente, il suo Dottor Živago fu bollato dal regime come "antisovietico" e pericoloso per la causa della rivoluzione comunista. Ma, a parte che il definire semplicisticamente "antisovietico" Pasternak doveva apparire una forzatura anche agli occhi del regime - uno scrittore "antisovietico" avrebbe mai affidato il suo segreto manoscritto a un giornalista di Radio Mosca? Queste, per chi conosce la sintassi del linguaggio comunista, erano accuse piuttosto generiche che tra l'altro non rivelavano granché del merito della questione. La motivazione è molto meno politica, se non meramente formale. Il fatto cioè che l'editore Feltrinelli avesse deciso di pubblicare il romanzo in Italia e di acquisire anche i diritti per la diffusione all'estero, quando la rigida prassi sovietica imponeva agli scrittori il divieto di pubblicare all'estero un libro che non fosse stato già pubblicato in URSS. Certo, vi erano aspetti sostanziali del libro, non facilmente condivisibili da parte del Cremlino; ma si può dire che la questione più grave era di ordine procedurale, quella cioè della preventiva pubblicazione in Unione sovietica, cosa che dava al regime un vantaggio nel controllo della produzione editoriale e anche l'occasione di espropriare i diritti d'autore.

La vicenda, detta così, sembra di poco conto; in realtà, generò una situazione piuttosto delicata e che mobilitò le massime autorità comuniste sia in Unione sovietica, compresi Chruščёv e Breznev, sia in Italia con Togliatti e Secchia. Della pericolosità della situazione era ben consapevole Pasternak che infatti, mettendo il manoscritto nelle mani dell'inviato di Feltrinelli, sussurrò qualcosa di agghiacciante: "Lei è invitato fin da questo momento alla mia fucilazione". Tutto questo, semplicemente perché il libro veniva pubblicato all'estero prima che in URSS!

Pasternak non fu fucilato; ma quando morì, due anni dopo il Nobel, la sua morte non fu meno lacerante di un'esecuzione capitale. Lo scrittore doveva essere sepolto in un piccolo cimitero fuori Mosca, nel bosco di Peredelkino. Questo avrebbe dovuto scoraggiare la partecipazione popolare e invece una grande folla si inoltrò nella fitta boscaglia per dare l'estremo saluto a Pasternak; quindi si impossessò della bara che fu trasportata a braccia fino alla sepoltura, a dispetto delle autorità che avevano disposto di trasferire sbrigativamente la salma con un furgone. Il funerale rappresentò, con questo colpo di scena, un atto altamente simbolico.

In seguito, saranno arrestati due intellettuali che avevano prelevato materialmente la bara di Pasternak, trasportandola a spalla: lo scrittore Andrej Sinjavskij e il suo traduttore Julij Daniel. Fu chiaro a tutti che l' arresto era dovuto a quel loro atto di insubordinazione nel corso delle onoranze funebri, anche se le motivazioni dell'accusa furono ufficialmente altre, quelle cioè di essere "rei di aver contrabbandato all'estero, pubblicandoli presso case editrici ostili, i propri scritti diffamatori del sistema politico e sociale del loro Paese". Erano, del resto, le stesse accuse che si rivolgevano all'autore del Dottor Živago, sebbene proprio il caso di Pasternak dimostri che nemmeno la pubblicazione presso case editrici "non ostili", come era la Feltrinelli, poteva essere una garanzia in questo senso. Il processo a Sinjavskij e Daniel era, in realtà, un processo a chi si era fatto avanti per raccogliere il testimone di Boris Pasternak.

La designazione del Premio Nobel per la letteratura 1965 avvenne proprio mentre a Mosca si apriva il processo a carico di Sinjavskij e Daniel. È difficile non vedere, dietro questa coincidenza, l'abile regia del Cremlino per condizionare il corretto andamento del lavoro dell'Accademia Svedese. Infatti, la designazione del Nobel per la letteratura fu dominata dall'ombra di Pasternak, dal timore di scomposte reazioni dei comunisti, nell'URSS dell'Achmatova come nell'Italia di Guareschi, oltre che dall'allarme di fronte alle conseguenze materiali che il pugno di ferro dei sovietici potesse determinare sull'esistenza degli scrittori di oltrecortina. Basti pensare che ad Anna Achmatova per tanti anni avevano trattenuto il figlio in campo di concentramento - inumana forma di ricatto.

L'Achmatova e Giovannino Guareschi erano due scrittori simbolo della realtà della Guerra Fredda. Come abbiamo visto nel precedente post dedicato a lei, la poetessa russa riteneva addirittura di essere stata coinvolta in prima persona nelle vicende che portarono alla Guerra Fredda. Mentre Guareschi, come si sa, aveva riportato nel "Mondo piccolo" della provincia emiliana le tensioni più estreme che condizionavano le relazioni con i paesi del blocco comunista. Nel 1965, quindi, era naturale considerare l'Achmatova e Guareschi due candidati naturali al Nobel, per il valore che la loro letteratura aveva nel tentativo di superare le contrapposizioni Est-Ovest. Anna Achmatova, per esempio, sebbene molto provata per l'età e per le precarie condizioni di salute, l'anno precedente si era sobbarcata la fatica di affrontare un lungo viaggio in treno da Mosca fino in Sicilia, per ricucire un mondo diviso, attraverso la forza della poesia e grazie alla febbrile azione diplomatica svolta, in questo senso, dalla Comunità europea degli scrittori di Vigorelli. Altro viaggio aveva fatto a Oxford nel mese di giugno del '65 per il conferimento della laurea honoris causa in Letteratura, per iniziativa di Isaiah Berlin, altro protagonista della "diplomazia culturale" di quegli anni.

Il percorso di Giovannino Guareschi verso la nomination al Nobel per la letteratura si inserisce in questo scenario, basta dire che Giancarlo Vigorelli figura come sceneggiatore nella trasposizione cinematografica dei racconti di Guareschi, ma è un percorso che ha nello stesso tempo qualcosa di particolare. Guareschi è stato un grande scrittore e la sua maggiore grandezza, indubbiamente, era la capacità di creare personaggi straordinari, personaggi nei quali poi i suoi numerosissimi lettori, con grande facilità, andavano a identificarsi. Il genio di Guareschi fu quello di personalizzare lo scontro tra i comunisti e i cattolici, le due anime del popolo italiano dell'epoca. Per scoprire poi, inaspettatamente, che quando le idee sono sottratte al mondo perverso delle ideologie e si restituiscono a uomini in carne e ossa, ogni ostilità si attenua; o, almeno, appare più umana.

La candidatura di Guareschi al Nobel venne avanzata da Mario Manlio Rossi, un docente universitario di origini emiliane che ha insegnato per tutta la vita all'estero, ma che è poco conosciuto in Italia. È difficile comprendere le ragioni di questa nomination; il nome di Rossi spunta fuori nel caso dell'omicidio di Giovanni Gentile perché pare che l'attentato all'intellettuale fascista fosse maturato negli ambienti fiorentini da lui allora frequentati. Comunque, secondo quello che scriveva il Corriere della Sera - 1° aprile 2014 - "nel corso della guerra Rossi era stato assunto dal Governo militare alleato [...] come assistente-interprete degli ufficiali inglesi" e impegnato in attività di spionaggio al servizio di Winston Churchill. La cosa è degna di nota in quanto le disgrazie di Giovannino Guareschi, che lo portarono anche in carcere, potrebbero essere fatte risalire proprio all'attivismo e ai depistaggi dello spionaggio inglese. Per cui, non si comprende bene dove andasse a pescare la proposta di Mario Manlio Rossi di candidare Guareschi al Nobel del '65. Ma, tant'è. Ciò potrebbe comunque costituire una conferma del ruolo, già abbastanza evidente, che ebbero i vari servizi segreti a margine di quell'edizione del Nobel per la letteratura.

Il verdetto dell'Accademia di Stoccolma lasciò a bocca aperta tutto il mondo letterario europeo e non solo. Il premio Nobel per la letteratura 1965 andò al sovietico Michail Šolochov "per la potenza artistica e l'integrità con le quali, nella sua epica del Don, ha dato espressione a una fase storica nella vita del popolo russo". Di Šolochov, autore del romanzo Il placido Don, più che altro era noto il suo ossequio nei confronti del Cremlino, per quanto valida potesse sembrare la sua opera. Probabilmente, c'era in quel momento la volontà nell'Accademia di fare delle concessioni al regime sovietico. L'idea, che cominciava a prendere piede nelle diplomazie europee, era quella di un'apertura nei confronti del regime sovietico nella speranza che ciò potesse contribuire a un dialogo e a una maggiore libertà. Mosca mostrava una certa disponibilità a questo confronto, intravedendo in ciò la possibilità di accreditarsi in ambito internazionale.

Forse tutto questo influenzò l'orientamento dell'Accademia svedese in favore del Nobel a Šolochov. C'era inoltre, la speranza che lo stesso Šolochov potesse far valere la sua autorità nel caso concreto del processo di Sinjavskij e Daniel. Quanto fossero sbagliati questi calcoli emerse molto presto, già nel corso della conferenza stampa che Michail Šolochov tenne dopo la cerimonia del Nobel, quando affermò sprezzantemente che uno scrittore sovietico "non deve cercare popolarità pubblicando all'estero", alludendo con questo al caso Pasternak e, nello stesso tempo, ai suoi emuli Sinjavskij e Daniel. L'affermazione era anche uno schiaffo diretto alla stessa Accademia con il quale, eseguendo evidentemente un ordine ricevuto da Mosca, Šolochov la sbeffeggiava per avere osato premiare Il Dottor Živago.

Che con questo si aprisse una delle pagine peggiori nella storia del premio Nobel per la letteratura fu chiaro di lì a breve, alla conclusione del processo a carico di Sinjavskij e Daniel. Intervenendo al XXIII Congresso del Partito comunista dell'URSS, nel mese di aprile, Michail Šolochov tirò fuori la sua lingua tagliente. Con il gioco delle allusioni tipico degli oratori di regime, Šolochov commentava così la sentenza di condanna di Sinjavskij e Daniel: "Alcuni, nascondendosi dietro frasi umanitarie, lamentano la severità della condanna. [...] Il senso umanitario non ha nulla a che vedere con la bavosità. E penso anche un'altra cosa. Fossero saltati fuori due ribaldi dalla coscienza sporca come questi nei memorabili anni Venti, quando si giudicava senza la delimitazione severa degli articoli del codice penale, ma "lasciandosi guidare dalla coscienza rivoluzionaria della giustizia", ah, non sarebbero stati trattati così, questi lupi mannari! E si ha ancora il coraggio, pensate, di criticare la "severità" della condanna". In altre parole, Šolochov voleva dire che in altri tempi - negli anni Venti - Sinjavskij e Daniel, condannati rispettivamente a sette e cinque anni di lavori forzati, sarebbero stati trattati con una maggiore severità. Si invocava, in sostanza, la pena di morte. Non c'è bisogno di dire che questo di Šolochov non è propriamente un discorso da premio Nobel.

Qualche giorno prima di questo indecoroso discorso, moriva l'altra candidata al Nobel Anna Achmatova. Benché fosse vissuta nella lontana San Pietroburgo, il destino aveva voluto che la poetessa andasse a morire silenziosamente alla periferia di Mosca, non molto distante dal luogo dove era morto Boris Pasternak, l'amico che tanto aveva irritato i sovietici. Una volta l'Achmatova aveva scritto un verso che allora, dopo tutte queste penose vicende, avrebbe certamente voluto ripetere: "Adesso voglio essere scordata".

Il candidato Giovannino Guareschi, invece, già da tempo aveva capito come girava il mondo; non risulta abbia mai aspirato veramente a vincere il premio Nobel. Sapeva bene che, in quegli anni, uno che non era comunista non doveva farsi molte illusioni; comunque sia, lui nel frattempo era distratto da faccende ben più importanti: si era dato all'agricoltura e aveva aperto un ristorante, rinomato per l'odore del pane appena sfornato e perché, di sabato, si serviva la trippa.


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