Tra molte difficoltà l’Italia sta trattando con l’Unione Europea la cosiddetta “bad bank”, cioè uno strumento che permetta di liberare i bilanci degli istituti di credito italiani dal peso dei crediti deteriorati. L’urgenza di una misura di questo genere è spiegata da questo grafico di Bloomberg, su dati BCE:
Non solo la percentuale di crediti deteriorati nel nostro paese è quattro volte la media europea, ma anche la velocità della crescita dello stock di “non performing loans” è stata nettamente al di sopra di ogni altro paese paragonabile e non ha accennato ad invertirsi nel corso degli ultimi 2 anni, a differenza di altre economia dell’eurozona.
fonte: https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2015/wp1524.pdf
L’Italia è quindi una vera e propria bomba ad orologeria per l’Unione Monetaria. Una crisi bancaria del nostro paese trascinerebbe infatti l’intera area euro in acque inesplorate, potenzialmente mettendo a rischio la tenuta della moneta unica (anche se, va detto, rischiano di rimanere delusi quanti vedono in ciò una ed una sola ineluttabile conclusione, vale a dire la fine dell’euro).
Tuttavia le misure di stabilizzazione del sistema finanziario, per quanto necessarie e urgenti, non bastano da sole a determinare una sostenuta ripresa economica. Anche delle banche risanate non saranno disposte a prendersi nuovi rischi se le aspettative riguardo l’attività economica continueranno a rimanere depresse. E, del resto, gli stessi crediti deteriorati sono la conseguenza di una crisi economica che il nostro paese non sembra riuscire a superare.
Per salvare le banche, insomma, serve in primo luogo salvare i clienti: imprese e famiglie che non sono in grado di rimborsare i debiti. Ma per farlo è necessario che l’Italia torni a crescere e soprattutto torni a crescere in termini nominali, visto che i debiti sono nominali. Detta in altri termini, serve non solo tornare a crescere, ma farlo con un po’ di inflazione “buona”. In nostro paese invece si è impegnato, dopo la crisi, in riforme che, abbassando il potere contrattuale dei lavoratori, tendono a frenare i salari nominali e quindi a lasciare l’economia in una situazione di bassa inflazione, se non di deflazione.
Il braccio di ferro che il governo italiano sembra (e sottolineiamo sembra) voler ingaggiare con l’Unione Europea, dopo anni di ubbidienza al punto di vista di Berlino, non può limitarsi, come pare invece fare, a piccoli aggiustamenti e alla contrattazione di pochi decimali di “flessibilità”.
Chi davvero dice di tenere all’Europa deve oggi, più che mai, difendere gli interessi nazionali. Il governo Renzi si dimostrerà all’altezza?
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