Ricoverata per molti mesi in un ospedale militare americano, contro ogni aspettativa Kim riuscì a sopravvivere, nonostante le ustioni che avevano devastato il suo corpo. Tornò al suo villaggio, alla sua famiglia. A lungo lei e la famosa foto vennero utilizzate dal governo nordvietnamita come strumento di propaganda. Era un “simbolo nazionale della guerra”. Ebbe la possibilità di studiare a Cuba, dove negli anni Ottanta conobbe il giovane studente che sarebbe diventato suo marito. Poi nel ’92, di ritorno da un viaggio a Mosca, la scelta che avrebbe – ancora una volta – cambiato la sua vita: la fuga in Canada. L’incontro, negli USA, con il Vietnam Veterans Memorial Fund. E di lì a poco, la nascita della fondazione che porta il suo nome, la Kim Phuc Foundation, che promuove la pace e il perdono.
Ho conosciuto Kim Phuc alcuni anni fa. Era a Comano per una puntata del programma “Era Ora”. Una signora gentile e sorridente. In lei le ferite del passato sembravano essere state lenite dalla sorpresa continua di fronte a ciò che la vita le ha riservato. “So che può essere difficile crederlo – dice oggi – ma a volte mi piace ripensare alla bambina che correva gridando giù per quella strada. Non è solo un simbolo della guerra: è il simbolo di un grido per la libertà”.
Alla vita di Kim Phuc è dedicato il documentario di Marc Wiese “La bambina e la fotografia”, in onda su LA 1 giovedì 10 febbraio alle 22.30 nell’ambito del settimanale Il filo della storia, curato da Silvana Bezzola.