C'erano volte che a guardarlo negli occhi rimanevo rapito dalla luce dorata delle sue iridi nocciola. Se Alex era un simpatico, Giuseppe, dovrei dirlo ridanciano! Non se la negava mai una risata, ed era lunga e nei toni persino adulta!
Quando, scoprendo i denti bianchissimi in una fragorosa risata, chiudeva gli occhi, temevo che non sarebbe più riuscito ad aprirli a causa dell'abbraccio in cui si avvinghiavano avide di gioia, le sue ciglia lunghe e folte.
I Martino erano quel tipo di famiglia siciliana che avevo già visto nei parenti di mio padre: appariscenti e riservati al tempo stesso, con una eccedente attenzione all'abito domenicale, all'uso delle cose d'oro e un pelino rumorosi nel volersi bene!
Suo padre in particolare era un uomo alto e fiero, bruno di pelo e capelli che come la moda dell'epoca suggeriva, portava vistose camicie molto aperte sul torace villoso. Occhi profondi e modi eleganti camminava sul piazzale del 52, con ampi pantaloni di lino estivo spesso bianchi e una catena d'oro con cui avrei potuto assicurare al palo la bici nuova! Mi scoprii capace di riconoscere il rumore della sua auto e di sbirciare dai vetri la sua figura con grande turbamento.
La madre invece, era una di quelle donne siciliane che avevano preso dai Normanni la propria pelle candida quasi perlacea, come mia zia Giacomina che però si faceva chiamare Mina: poco incline a lunghe conversazioni e anche lei fumatrice aveva l'aria di trascinarsi come avvinta da una gran stanchezza, pur riflettendo la stessa eleganza di suo marito.
Se proprio ce l'aveva un difetto era quello di essere talmente magra da far sembrare storte le sue gambe snelle. Non me lo ricordo, come io e Giuseppe abbiamo fatto amicizia ma a quell'età non c'era bisogno di nient'altro che annusarsi come cuccioli per stabilire una intesa.
Siccome si erano trasferiti al 52 da poco ed erano contenti che i loro figli facessero amicizie, mi invitarono ad un pranzo la domenica.
Devono aver preso la Maria Luisa in contropiede per essere riusciti a cavarle un si, o forse fu solo sollevata che l'invito non fosse rivolto a lei.
L'appartamento dei genitori di Giuseppe, era arredato in perfetto stile 70: tra i divani del salotto dove io e Giuseppe avremo passato diversi inverni a parlare e ridere senza un perché, campeggiava l'immancabile lampada a steli di vetro che se accesa proiettava un aurora boreale psichedelica sulle tende a grandi motivi geometrici!
L'emozione di seder a tavola con loro me la ricordo ancora, vuoi perché fu il primo invito rivolto proprio a me, vuoi perché tutto sembrava magico e speciale, come i carciofi ripieni sul piatto di portata!
Dio, i carciofi non li conoscevo in quella forma, anche se li avevo già mangiati e quando uno di questi fu nel mio piatto, fu come se un parente si fosse infilato nel mio bagno mentre facevo la cacca. Non puoi alzarti e andartene e non puoi chiedergli cosa ci fa li perché bene o male non è sconosciuto ne puoi sperare che ti spieghi il senso della sua presenza.
Cominciai prendendo le posate, tenendole come mi si rimproverava di non fare a casa, e come un maestro d'orchestra senza spartito le roteai vicino al carciofo nella speranza che suonasse. Niente, andava mangiato, ma come?
Ero in trappola, seduto a capotavola con di fronte un uomo che mi agitava più del carciofo, con il mio miglior amico al quale già dovevo nascondere ciò che nemmeno sapevo cos'era, e con un ortaggio che sembrava supplicarmi, imbottito com'era, di metter fine alla sua sofferenza!
Prendevano le foglie una ad una e le portavano alla bocca, così mi decisi ad imitarli ma dimenticai di non infilarle in bocca del tutto, cosi in men che non si dica ebbi la bocca piena di foglie e la coscienza di essere fottuto.
Credo di aver sentito solo la risata di Giuseppe mentre decidevo se ingoiare e soffocarmi o sputare in faccia al mio vicino tutto il mio imbarazzo!
Fu cosi che imparai a succhiare solo la parte tenera delle foglie del carciofo "alla siciliana".
Quel fatto buffo per il quale ancora provo vergogna, suggellò la mia amicizia con Giuseppe e sua sorella più piccola la quale molto tempo dopo mi avrebbe addirittura insegnato a nuotare!
Un giorno la loro famiglia portò a casa un cane, per la precisione un barboncino bianco di nome Emi, e da quel giorno, cercavo sempre di scendere giù quando lei faceva con Giuseppe la sua passeggiata. Beniamina immediata di noi ragazzi la Emi ricambiava il nostro entusiasmo vorticando tra le nostre gambe secche e sbucciate con una velocità strabiliante.
Purtroppo i barboncini hanno il difetto di avere un abbaio squillante acuto e insistente, per cui nonostante tutto mia madre se ne lamentava, mentre io ero felice di sentirla chiamarmi dal balcone o di sentirla correre nel corridoio. Emi non fu esente dal gusto estetico dei suoi padroni e le vidi in quegli anni con diverse tosature creative. I vicini pensavano che anche il cane si desse delle arie. Com'era buffa coi ciuffi avvolti in carta ed elastici come bigodini! Non ha mai avuto odore di cane la Emi, lei, sapeva di colonia.
Quando fece i cuccioli fu per me una emozione grandissima. Quella cagnetta che ogni volta che mi vedeva riusciva a ficcarmi la lingua in bocca nonostante le mie proteste, mi guardava sdraiata tra i suoi bambini come consapevole di essere stata brava e quando la mia mano si avvicinò, mi leccò per la prima volta con garbo come ad indicarmi il modo in cui avrei dovuto toccare i suoi cuccioli. Che meravigliosa lezione!
Cominciai a supplicare i miei di poter avere un animale, dato che avevamo anche un inutile giardino, ma il guaito notturno dei cuccioli non predispose mia madre a quella esperienza, cosi decisi di imparare ad andare in bici e mi infilai il manubrio nello sterno.
Nonostante fossi un imbranato, presto imparai ad andarci e con Giuseppe a fare la discesa dal curvone alla sbarra senza freni. Una caratteristica dei ragazzini è quella di ignorare quanto siano potenzialmente mortali tutti loro giochi. Cosa diavolo ci trovavamo nel rischiare l'osso del collo?
La gara si svolgeva così: si partiva in piano dal piazzale, dove pedalando prendevamo velocità, poi giù per la prima parte di discesa verso il mitico "curvone" che tagliavamo stretto stretto verso la parte di discesa più ripida. la regola era niente freni fino ad imboccare in contromano la stradina che portava al condominio sotto il 52. Inutile dire che non avevamo mai pensato di metter qualcuno a controllare che un auto non ci venisse incontro dall'unica strada che poteva fare per uscire. E altrettanto inutile dire che ci divertivamo come deficienti.
Affannati ed eccitati io e gli altri ci scambiavamo un unico batticuore e la flebile convinzione di essere eroici, ma l'eccitazione che gli ormoni ancora non dirigevano altrove rimaneva tra noi e noi soltanto: la banda del 52! Era fantastico per me, ragazzino dai molti limiti fisici far parte di qualcosa come quello e pur disastrandomi per terra ad ogni occasione, ero incrollabilmente deciso a farne di ogni con loro: rubare i tappi della benzina dai motorini dei bulli del quartiere, sfilare le lettere dalle caselle e metterle in quella di qualcun'altro o che ne so suonare ai citofoni degli altri palazzi e scappare.
Una sera prima di cena, la banda si riunì e decise che bisognava alzare la posta. Guardandoci negli occhi annoiati ci chiedevamo che fare, e non so chi decise che era l'ora di esplorare l'intercapedine. Si trattava di un budello che attraversava dall'interno tutto il 52 per lunghezza. Le due porte alle estremità erano un po' sgangherate ma chiuse in qualche modo: avremo dovuto preparare un piano molto accurato per farcela.
Cosa bofonchiate, chiesero la sorella di Giuseppe e quella di Marcolino.
Niente, cose da maschi.