La bassa domanda e il declino italiano

Creato il 05 aprile 2013 da Keynesblog @keynesblog

Il declino dell’economia italiana ha radici nella repressione della domanda aggregata in atto da oltre due decenni. Il confronto con il resto d’Europa ci assegna il triste primato dell’austerità.

di Stefano Perri, da Economia e Politica

Il dibattito sul declino prima e la crisi poi dell’economia italiana si è focalizzato principalmente sugli elementi “strutturali” dal lato dell’offerta[1]. Generalmente, al contrario, l’andamento negativo della domanda aggregata è considerato come un fattore congiunturale o di breve periodo. Tuttavia, basta guardare i dati senza pregiudizi per capire che la debolezza della crescita della domanda aggregata è stata una costante che per almeno un ventennio ha caratterizzato l’economia italiana. E’ quindi difficile negare che questo sia un vero e proprio elemento strutturale che ha concorso agli effetti così drammatici della crisi attuale. Dal punto di vista teorico ci si può riferire alla legge di Kaldor-Verdoorn. La legge mette in relazione la crescita della produttività del lavoro, la cui debolezza come si sa è uno degli elementi che hanno caratterizzato la nostra economia, con la crescita dell’output, individuando nella crescita dell’output la variabile indipendente. Interpretata dal lato della domanda, la legge afferma che la crescita della produttività è indotta dalla crescita della domanda aggregata[2].

I dati dimostrano chiaramente che dal 1991 ad oggi la crescita della domanda finale aggregata, come mostrato dal grafico 1.a)[3], è molto più debole in Italia rispetto alla media europea e alla Francia e alla Germania per tutto il periodo, anche se il fenomeno si rende ancora più evidente nell’ultimo decennio. Ci sono quindi forti argomenti per sostenere che “il declino” italiano sia determinato anche dal lato della domanda aggregata e dal sostanziale rigetto di qualsiasi politica keynesiana negli ultimi decenni. Inoltre per tutte le componenti della domanda aggregata considerate si registra in generale una performance peggiore dell’Italia rispetto agli altri paesi. In particolare la componente delle esportazioni illustrata nel grafico 1.b) ha un andamento più contenuto rispetto agli altri paesi a partire dal 2000, pur restando vicina a quella della Francia. Questo dato suggerisce che la scarsa crescita della produttività del lavoro sia legata alla contrazione del saggio di crescita delle esportazioni in seguito alla ridotta competitività di prezzo dopo l’adozione dell’Euro.

Il grafico 1.c) mostra l’andamento della domanda domestica. Quest’ultima vede un rallentamento dei saggi di crescita tanto delle spese di consumo finale del governo (1.d) che delle spese di consumo finali private (1.e). In particolare le prime subiscono una brusca decrescita tra il 1992 e il 1995, rallentano nuovamente tra il 2005 e il 2009, per tornare a decrescere negli anni successivi. Indubbiamente il ripetersi di politiche di tagli alla spesa pubblica, pur indotte dall’alto rapporto debito – Pil del nostro paese, contribuiscono ad aggravare il problema della produttività e della crescita, rischiando di generare un circolo vizioso da cui è sempre più difficile uscire[4].

Vista l’importanza assunta dal problema del debito pubblico, conviene riflettere ulteriormente su alcuni dati. Il grafico 2) mostra infatti come l’Italia sia stata in realtà più “virtuosa” della media dei paesi europei, della Germania e della Francia, mostrando negli ultimi venti anni un avanzo primario dello stato al netto degli interessi assai più alto. In particolare in Italia l’avanzo primario raggiunge il suo picco, pari al 6,51% del Pil nel 1997. Solo nel 1991 e nel 2009 il bilancio primario è in disavanzo. Anche nel 2009, peraltro, il disavanzo primario è minore rispetto alla media europea, alla Germania e alla Francia. Per contro, la Germania sperimenta nello stesso periodo un disavanzo primario in 8 anni e la Francia in 18 anni. In Italia la crescita del debito pubblico di questi anni è dovuta esclusivamente al pagamento degli interessi.

Legato all’andamento della spesa pubblica è anche l’andamento dei consumi privati, che sono influenzati nettamente dalle politiche di austerità e che assumono un trend negativo dal 2007 al 2009 e poi di nuovo dal 2011. Si nota anche che la Germania mostra, per la prima metà degli anni 2000, un rallentamento considerevole della domanda domestica, compensato però dall’andamento delle esportazioni.

Le cause della stagnazione dei consumi privati sono molteplici. Qui si sottolineano due aspetti tra loro correlati. Da una parte è cresciuta in questi anni in modo consistente la diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Secondo l’OCSE questo fenomeno è stato, tra i paesi europei, particolarmente accentuato in Italia, che tradizionalmente ha sempre avuto un indice di concentrazione dei redditi più alto dei paesi dell’Europa continentale.

Il Grafico 3 riporta l’andamento dell’ indice Gini in Germania, Francia ed Italia. In Italia le diseguaglianze sono cresciute particolarmente, secondo l’OCSE, nella prima metà degli anni novanta e poi, sia pure in maniera meno accentuata, nella prima metà del primo decennio del nuovo secolo[5].


Molto significativo, in relazione alla scarsa dinamica della domanda dei consumi privati, è poi l’andamento dei salari. Il grafico 4) riporta l’andamento dei salari annui medi, misurati in termini di parità di potere d’acquisto a prezzi costanti in dollari. Come si vede i salari sono rimasti pressoché costanti, essendo variati in termini di potere d’acquisto, solo dell’1,33% in venti anni. Per contro in Francia i salari sono cresciuti nello stesso periodo del 23,07% e nella stessa Germania, con una politica molto rigorosa nel contenere la loro crescita, soprattutto a partire dal nuovo secolo, del 17,78%.

Infine un discorso più complesso riguarda l’andamento della formazione del capitale (grafico 1.f), altra importante componente della domanda finale. In Italia anche l’andamento della formazione del capitale risulta più basso, per tutto il periodo considerato, rispetto alla Francia e alla media europea, mentre risulta superiore a quello della Germania per buona parte del periodo a partire dall’inizio del nuovo secolo, fino al 2009, evidente indizio che non conta solo il volume, ma anche la qualità degli investimenti. Con la crisi, dopo il 2007, questa variabile assume in Italia un andamento drammaticamente decrescente, molto più accentuato rispetto agli altri paesi. Il problema degli investimenti si presenta quindi particolarmente acuto nel nostro paese durante la crisi e l’effetto delle politiche di austerità è quello deprimere gli investimenti, cioè proprio una dei fattori essenziali su cui puntare per uscire dalla crisi. In conclusione i dati sembrano supportare l’ipotesi che una parte considerevole, anche se, a parere di chi scrive, non esaustiva, delle cause delle difficoltà attuali dell’Italia, anche in rapporto agli altri paesi europei, sono legate all’andamento della domanda aggregata. Ad esempio, è difficile negare che una scarsa dinamica della domanda domestica non abbia conseguenze molto negative per le micro imprese, che difficilmente, a differenza delle medie, possono essere orientate all’esportazione. Basti pensare che nella manifattura in Italia, secondo dati Eurostat, prima della crisi era impiegato nelle micro imprese (da 1 a 9 occupati) il 25% dell’occupazione totale del settore, mentre in Germania appena il 6% e in Francia il 12%. Inoltre in ciascuna micro-impresa in Italia sono impiegati in media 2,8 lavoratori. Ignorare questo aspetto significa entrare in una spirale recessiva da cui è onestamente difficile vedere l’uscita.

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[1] Questo contributo è in parte ripreso da un paragrafo di un saggio più ampio scritto insieme a Roberto Lampa.
[2] In particolare le basi della legge sono individuate da Kaldor nella presenza delle economie di scala e del processo di learning by doing, nella rilevanza del processo di specializzazione e di interazione tra le imprese e nell’endogeneità del progresso tecnico incorporato nel capitale. Diverse ricerche empiriche hanno dimostrato la validità della legge di Kaldor-Verdoorn per l’Italia, come per altri paesi. La crisi nella crescita della produttività del lavoro, secondo questa legge, non deve essere tanto ricercata dal lato dell’offerta, nella scarsità del capitale umano, nell’esistenza di distorsioni nei mercati dei beni e dei servizi, nell’eccesso dei costi del lavoro o nel basso livello degli investimenti, ma è causata principalmente dalla crisi di crescita della domanda. Si veda, ad esempio, OFRIA F (2009), L’approccio Kaldor-Verdoorn: una verifica empirica per il Centro-Nord e il Mezzogiorno d’Italia (anni 1951-2006), Rivista di politica economica, Gennaio-marzo 2009, pp. 179-199, che metter anche in evidenza come le stime empiriche mostrano come le variabili di offerta (il rapporto investimenti-Pil e il tasso di crescita del costo del lavoro) non siano significative, a differenza della legge di Kaldor-Verdoorn, nello spiegare l’andamento della produttività del lavoro.
[3] In questo, come nei grafici seguenti sono riportati i numeri indici delle varie variabili, per rendere più facile il confronto con gli altri paesi.
[4] Lo stesso Olivier Blanchard (O. BLANCHARD, D. LEIGH (2013), Growth Forecasts errors and Fiscal Multipiers, IMF Working Paper Series, Department of Economics, 13/1) ha recentemente preso atto che i moltiplicatori della spesa erano stati ampiamente sottostimati dal FMI. Essi andrebbero quantificati più correttamente tra 0,9 ed 1,7.
[5] Si può poi osservare che secondo l’Eurostat, l’indice GINI ha ripreso a salire in concomitanza con la crisi, negli ultimi anni.


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