Quando gli inglesi - i Maestri del «football» - erano superbi a tal punto da ritenersi troppo forti per prender parte ad una manifestazione di infimo livello - secondo loro, naturalmente - come il Campionato Mondiale di Calcio, coloro i quali si guadagnavano l'onore di sollevare al cielo la prestigiosa Coppa Rimet dovevano superare una sorta di «esame» per potersi fregiare dell'onorifico titolo di squadra più forte del mondo: sconfiggere l'Inghilterra in casa propria, nella perfida Albione. Nel 1934 toccò all'Italia, fresca di titolo mondiale conquistato sconfiggendo in finale la Cecoslovacchia. I pezzi grossi della Football Association, onde evitare figure barbine, scelsero il 14 novembre per disputare il match. Pozzo, ben conscio delle insidie dei campi inglesi nel periodo autunnale, chiese di rinviare la partita, ma Mussolini, tra i massimi promotori dell'evento, gli negò questa possibilità, facendosi perdonare promettendo un'Alfa Romeo nuova di zecca a ciascun componente della squadra in caso di successo.
Si gioca ad Highbury, nella tana dell'Arsenal, la squadra resa grande da Chapman e dal suo innovativo «Sistema». Il più innovativo allenatore nella storia dei Gunners è scomparso nel gennaio di quell'anno a causa di una polmonite, ma la Nazionale Inglese è imperniata sul nucleo di giocatori da lui formati: in campo contro l'Italia ne vanno ben sette (record tutt'ora imbattuto). C'è anche un giovane Stanley Matthews, per lui si tratta della terza partita in Nazionale: «la più violenta della mia carriera», dirà tempo dopo. Opposta filosofia tattica per l'Italia, che fonda i suoi successi sul «Metodo» di Pozzo. In campo vanno nove undicesimi della formazione che ha sconfitto la Cecoslovacchia a Roma il 10 maggio: Ceresoli e Serantoni rimpiazzano rispettivamente Combi e Schiavio, che hanno rinunciato alla maglia azzurra per motivi anagrafici.
Si scende in campo, ed Olsson, arbitro dell'incontro, è convinto di dar via ad una prestigiosa partita di calcio, ma si sbaglia di grosso: si tratterà di una vera e propria battaglia. Dopo appena un minuto il direttore di gara svedese deve già metter bocca al fischietto per un intervento del portiere Ceresoli su Drake; dal dischetto va Brook, ma l'estermo difensore dell'Ambrosiana Inter sventa il gol con un plastico tuffo. Gli animi si scaldano, e a farne le spese è l'alluce sinistro di Monti, maciullato da un rude intervento di Drake (139 gol con l'Arsenal, non certo uno stopper spaccatibie). Vista l'assenza di sostituzioni - arriveranno nel 1965, oltre trent'anni dopo -, Monti è costretto a rimanere in campo, finendo addirittura col contribuire involontariamente alla terza marcatura inglese: Drake sfrutta un suo errore per trafiggere Ceresoli al 12' dopo che Brook aveva già segnato due gol, di testa al 3' e su punizione al 10'.
Neppure un quarto d'ora di gioco, quindi, e l'Italia è sotto di tre gol con il non risibile handicap dell'uomo in meno. Pozzo costringe allora Monti ad uscire, collocando Ferraris IV centromediano ed arretrando Serantoni nella posizione di mediano destro. E via con le botte! Per salvare l'onore, l'Italia va oltre il lecito, finendo con il vendicare ampiamente Monti, finito intanto in ospedale: Hapgood, il capitano inglese, si ritrova con il naso rotto; Bowden ci rimette la caviglia; Brook si frattura un braccio e Drake, colui il quale aveva azzoppato Monti, si becca un cazzotto in pieno volto. Ed il primo tempo si è appena concluso, restano da «combattere» altri 45 minuti.
Continuando sulla via - non certo retta - seguita nel corso della prima frazione, gli italiani seguitano a calciare tutto ciò che gli capita a tiro, stinchi compresi. Tra gli azzurri, però, c'è un fuoriclasse: si chiama Peppino Meazza. Sa che non c'è occasione migliore per mettere in luce il proprio talento fuori dai patrii confini, ed un narcisista come lui non può certo farsi sfuggire una simile chance. Il «Balilla» si carica la squadra sulle spalle, segnando una doppieta di pregevole fattura: prima un destro al volo, poi un colpo di testa su punizione di Attilio Ferraris. Siamo 3-2 per loro.
I nostri non si accontentano certo di un'onorevole sconfitta: Guaita e Ferrari impensieriscono il «goalkeeper» Moss, ma è il solito Meazza a sfiorare il gol del pari a pochi istanti dal fischio finale. La sua conclusione, però, finisce sul palo, negandogli la gioia di una storica tripletta. Il match disputato dagli azzurri è epico, finisce con l'assumere contorni eroici. Nicolò Carosio, pionere della radiocronaca sportiva, è in delirio: quegli undici scesi in campo non sembrano uomini, ma leoni. I «Leoni di Highbury».
Antonio Giusto
Fonte: Goal.com