La beatificazione di Romero, un grande dono per la Chiesa

Creato il 23 febbraio 2015 da Gaetano63
“Per me è un santo ed è un martire. Se fossi Papa, lo avrei già canonizzato”. Questo rispose nel 2007, durante una riunione del Celam ad Aparecida, in Brasile, l’allora Cardinale Bergoglio a un sacerdote che gli chiedeva cosa pensasse di monsignor Oscar Arnulfo Romero. Ora che Papa lo è per davvero, Francesco quella decisione l’ha presa, firmando il decreto che riconosce il martirio dell’Arcivescovo di San Salvador, ucciso in odio alla fede il 24 marzo 1980. Monsignor Romero sarà dunque beato. Qualcuno ha commentato: ci voleva un Papa latinoamericano perché il processo arrivasse a conclusione. Di certo il Pontefice venuto “quasi dalla fine del mondo” e che vuole “una Chiesa povera per i poveri” è molto affine come sensibilità alla figura di quel Pastore vescovo tanto vicino ai diseredati. Ma non bisogna dimenticare Benedetto XVI, che ha seguito la causa dall’inizio e che il 20 dicembre 2012 – poco più di un mese prima dell’annuncio della rinuncia – ne decise lo sblocco. Così come Giovanni Paolo II, il quale, nonostante rapporti personali non facili, nel 1983 decise di andare a pregare sulla sua tomba e in seguito lo ricordò nella celebrazione dei Nuovi Martiri durante il Giubileo del 2000, nonostante il nome mancasse nell’oremus finale. La beatificazione di Monsignor Romero è un grande dono per la Chiesa, ma anche per quanti, credenti e non, vedono in lui un difensore dei poveri, un paladino dei diritti dei più deboli e un fautore della pace. Il 24 marzo – giorno della morte - è divenuto per decisione della Cei “Giornata di preghiera per i missionari martiri”. E l’Onu ha proclamato quella data “Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime”.Il martirio di Romero è legato a quello di un suo grande amico, padre Rutilio Grande, un gesuita che aveva lasciato l’insegnamento universitario per andare fra i contadini del piccolo villaggio di Aguilares. Padre Grande venne ucciso in un agguato insieme a due contadini la notte del 12 marzo 1977. Romero, da poco Arcivescovo di San Salvador, vegliò il corpo, rimanendo profondamente colpito dai tanti contadini che andavano a rendere omaggio al loro Pastore. Visto che erano rimasti senza “padre”, disse a un amico, toccava a lui prenderne il posto. Quella notte sentì – come scrisse più volte – un’ispirazione divina a essere forte, mentre nel Paese, segnato dall’ingiustizia sociale, imperversavano le violenze: dell’oligarchia contro i contadini, della guerriglia rivoluzionaria Chiesa che difendeva i poveri. La Chiesa, del resto, era la principale accusata e veniva colpitaduramente,in un clima di persecuzione. Dopo due anni a San Salvador, Romero aveva già “perso” 30 preti, tra uccisi, espulsi o richiamati, e decine di catechisti delle comunità di base, assassinati dagli “squadroni della morte”. Come Vescovo e Primate si sentì responsabile verso la popolazione. Sapeva che erano i poveri e gli oppressi a dover segnare il cammino della Chiesa. E quella fu la sua grande scelta, nonché il suo più grande insegnamento. Prese a difenderli senza timore, denunciando la brutale repressione durante le prediche domenicali seguite alla radio da tutta la nazione. La sua voce divenne la voce del popolo. «Nel nome di Dio e del popolo che soffre — dirà ostinatamente il giorno prima di essere assassinato — vi supplico, vi prego, e in nome di Dio vi ordino, cessi la persecuzione contro il popolo». Poco prima, del resto, aveva invitato i soldati a disubbidire all’ordine di uccidere. L’Arcivescovo era conscio dei rischi che correva. «Mi costa accettare la morte violenta che in queste circostanze è molto possibile», confidò infatti a un amico.Tuttavia non chiese di essere trasferito, come qualcuno gli suggeriva. Venne assassinato sull’altare, mentre celebrava la messa. E non fu un caso. Quell’esecuzione doveva essere un avvertimento chiaro per chiunque volesse proseguire su quella strada. Ma il ricordo di Romero divenne ben presto il ricordo di tutte le vittime della violenza che insanguinò il Paese. Il suo martirio restituì senso e forza a quanti avevano perso parenti e amici. Nel corso degli anni non sono mancate incomprensioni sulla figura del Presule. Molti si sono opposti alla sua beatificazione. Si è messa in dubbio la sua «conversione» ai poveri, accusandolo di essere stato manipolato dai gesuiti dell`Università cattolica (assassinati nel 1989); e si è temuto che la sua elevazione agli altari potesse trasformarsi nella canonizzazione della teologia della liberazione. Ma a un giornalista che gli chiedeva se fosse d’accordo con la teologia della liberazione, Romero rispose: “Si certo. Ma ci sono due teologie della liberazione. Una è quella che vede la liberazione solo come liberazione materiale. L’altra è quella di Paolo VI . Io sono con Paolo VI”. Al di là di ogni polemica, oggi peraltro superflua, resta una realtà incontestabile: i primi e più autorevoli testimoni della santità di Oscar Romero sono stati i poveri e gli oppressi. Può bastare.Gaetano Vallini - giornalista de L'Osservatore Romano15 febbraio 2015 - n.3

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