La Bella e la Bestia

Creato il 09 marzo 2014 da Af68 @AntonioFalcone1

Regista profondamente cinefilo, il cui estro può certo definirsi piuttosto multiforme, volto ad adattare tematiche pop (in particolare quelle proprie dei film di genere, horror e fantastico, degli anni ‘60/’70) a tutto ciò che la moderna tecnologia può offrire in ambito cinematografico, Christophe Gans torna a dirigere (e in parte a sceneggiare, coadiuvato al riguardo da Sandra Vo-Anh) un film, ad otto anni di distanza dal precedente Silent Hill, 2006, proponendo un adattamento della nota fiaba La Bella e la Bestia, dalle origini antiche, tanto che la si fa risalire ad Amore e Psiche, da Le metamorfosi o L’asino d’oro di Lucio Apuleio.
Dopo anni di tradizione orale si è poi concretizzata essenzialmente in due versioni, la prima di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve (1740, in La jeune américaine, et les contes marins) e la seconda consistente nella sua riduzione ad opera di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1756, Magasin des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et plusieurs de ses élèves), mentre meno nota è la riproposizione del racconto originario ad opera del novelliere Giovanni Francesco Laparola (Il re porco, ne Le piacevoli notti, 1550).

Léa Seydoux

Gans, ben lontano dalla particolare atmosfera, immaginifica e poetica in egual misura, messa in scena da Jean Cocteau nell’omonima pellicola del 1946, inizialmente sembra propenso ad assecondare un’impostazione fiabesca, per poi smarrire la bussola in un roboante e barocco tout pourri di citazioni cinematografiche ad alta resa digitale, convincente da un punto di vista essenzialmente visivo, ma dallo scarso calore empatico. Una giovane donna racconta ai suoi due pargoletti, attingendo dalle pagine di un libro le cui illustrazioni prendono poi forma filmica sullo schermo, la storia di un ricco mercante (André Dussollier), vedovo e con sei figli, tre femmine e tre maschi, il quale subisce un pesante tracollo dopo il naufragio delle sue tre navi. Ormai sul lastrico, costretto a vendere ogni suo avere, per sfuggire al disonore della mutata condizione sociale decide di ritirarsi in campagna. Della sua prole solo la più giovane, Bella (Léa Seydoux), si adatta senza problemi al nuovo stile di vita, provvedendo alla gestione della casa, mentre le due sorelle in particolare rimpiangono agi e feste.

Seydoux e André Dussollier

Un bel giorno, ecco giungere la notizia che una delle navi è stata recuperata, il mercante è convinto di poter ritornare ai fasti di un tempo, ma giunto in città scopre come il carico sia appena sufficiente a pagare i debiti ed affranto si mette sulla via del ritorno; sorpreso da una tormenta di neve, trova ospitalità in un misterioso castello, in apparenza disabitato ma ricco di ogni grazia di Dio. Il proprietario (Vincent Cassel), un essere mostruoso dalle sembianze feline, si farà improvvisamente vivo quando il mercante cercherà di cogliere una rosa in giardino, da portare a Bella che la desiderava in dono: la Bestia gli permette di far ritorno a casa, ma con la promessa di ripresentarsi al castello, per scontare la pena che comunque gli spetta (“una rosa per una vita”), ma sarà la giovane figlia a sostituirsi all’anziano genitore …
Pur nell’evidente sforzo (e sfarzo, perdonatemi il gioco di parole) produttivo, notevole per una produzione europea (il film è stato girato principalmente in interni, presso lo storico Studio Babelsberg), La Bella e la Bestia non riesce ad elevarsi oltre la dimensione che gli è più propria, un mero esercizio di stile.

Vincent Cassel

Certo, occorre riconoscere a Ganz, come scritto debitore nella resa stilistica-visiva al cinema fantastico d’antan (penso al nostro Mario Bava in particolare, ma anche alle “vecchie” produzioni Hammer), il dovuto merito, ovvero l’utilizzo del digitale in guisa d’integrazione scenografica funzionale alla narrazione, così come avveniva per gli artigianali “espedienti speciali” di un tempo in vari b-movies, ma altrettanto obiettivamente va rilevato un incedere narrativo che si rivela ben presto meccanico, pedante e a tratti farraginoso.
La sceneggiatura delinea infatti tre piani differenti, assecondata da una scenografia cangiante (Thierry Flamand al riguardo ha dichiarato di essersi ispirato allo stile manuelino, una transizione portoghese tra il gotico e il rinascimento), oltre che dalla fotografia (Christophe Beaucarne ne asseconda con maestria i toni, ora opaca e cupa, ora più luminosa) e dagli sfavillanti costumi (Pierre-Yves Gayraud): si parte dalla dimensione fiabesca iniziale sopra descritta per poi passare a quella a metà strada fra immaginazione e realtà (la storia principale si svolge nel 1810, Primo Impero Francese, il flashback relativo ai trascorsi del “mostro” è ambientato in età rinascimentale), al cui interno si snodano le varie vicende e si giunge infine ad una sorta di mondo a parte, sospeso nel tempo, rappresentato dal castello della Bestia.

In tale ambito, sotto forma di sogni notturni, si palesa a Bella il passato dell’essere ferino, un valido espediente per mostrarci il vero volto di Cassel, non coperto dalla maschera leonina applicata in fase di postproduzione, ma al contempo poco convincente succedaneo di quegli elementi che dovrebbero costituire i veri assunti, romantici e sensuali, del racconto, come nell’impianto letterario originario: il progressivo innamoramento della fanciulla nei confronti del “diverso”, la scoperta delle reciproche personalità e il loro conseguente adattamento in nome dell’amore, la consapevolezza adulta della sessualità da parte di una fanciulla che diviene donna abbandonando il punto di riferimento maschile primario, la figura “pura” del padre. O, ancora, dal punto di vista della Bestia, in tale stato per aver tradito madre natura e quindi la propria più intima essenza, la capacità di andare al di là del proprio istinto “predatorio” nell’apprezzare, oltre che la beltà della palpitante figliola (la Seydoux è una valida attrice, peccato Ganz pensi di valorizzarla con voyeuristiche inquadrature a filo di décolleté), la sua determinazione e generosità, l’essere coi piedi ben saldi per terra e distante da desideri prettamente materiali.

Seydoux e Christophe Gans

Il tentativo sincretico volto ad accontentare diversi tipi di pubblico, da quello propriamente infantile (il ricorso, ma niente che vada, purtroppo, al di là di un ameno contorno, a delle buffe creature, Tadum, che dovrebbero sostenere Bella nel suo soggiorno forzato, o il richiamo, nella scena del ballo, all’omonimo film d’animazione disneyano) ai più grandicelli, non riesce ad assumere un’identità ben definita, al pari di una matrice derivativa (il nostro agita di tutto nel suo shaker, il citato Bava, Burton, Miyazaki, Lang) mai propriamente metabolizzata, lasciando che la deriva citazionista si cristallizzi in una perenne sospensione dal sapore indeterminato. Estenuante e rutilante in egual misura il bailamme finale stile videogame, che conduce all’intuibile sequenza conclusiva, quando la mamma chiuderà il libro e verrà visualizzato un vissero felici e contenti all’insegna della più tranquilla “normalità” terrena: ancora una volta la Bella avrà avuto la meglio sulla Bestia. In lotta fra tensioni immaginifiche che ne agitano l’animo e la commessa da portare a termine idonea nel tenerle a freno, Gans offre in definitiva un film nel complesso godibile, ma dal fascino freddo e distante, la cui unica magia finisce col concretarsi in una narcisistica compensazione del proprio ego autoriale, mancando il bersaglio di offrire quel rassicurante coinvolgimento che si pretende da una fiaba, un minimo di poesia ed afflato fantastico da cui farsi piacevolmente avvolgere e cullare.

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Allora, Denham, gli aeroplani gliel’hanno fatta, eh?
Oh no, non sono stati loro: è stata la bellezza che ha sconfitto la bestia.

(Dalla scena finale del film King Kong, 1933, di E.B. Schoedsak e Merian C. Cooper, breve scambio di battute fra un poliziotto e il regista Denham, interpretato da Robert Armstrong)


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