Il Financial Times ha fatto eco a una notizia singolare: la Corte dei Conti avrebbe fatto causa alle più note agenzie di rating americane per l'immotivato downgrade dell'Italia nel 2011, insomma quel momento in cui qualcuno ha deciso che noi stavamo affondando e qualcun altro qui, nel Bel Paese, ha deciso di strozzarci definitivamente con tasse e tributi fuori dal comune. Del resto, non mi ricordo chi mi diceva di un colosso multinazionale, la cui pratica aziendale era semplice: se vedi che un nemico sta annegando, infilagli un tubo in bocca e apri l'acqua. Semplice, no?
In sostanza, il nostro stato vuole vedersi riconoscere il patrimonio artistico-letterario nel P.I.L., ma per far cosa, per venderlo? Dobbiamo attribuire un valore monetario alla tradizione che ci appartiene? O dobbiamo solo valutare l'impatto turistico che la cura delle nostre città e della sicurezza chiaramente scoraggia? Una nazione che punti alla valorizzazione di un patrimonio storico-artistico (che, per la cronaca, ormai è dell'umanità) dovrebbe evitare di evacuarlo come si fa, a digestione avvenuta, con ben altro prodotto interno lordo.
Rubare la bellezza a chi può fruirla nel futuro significa rubare il futuro della nazione. Rubare il senso della profondità, la prospettiva (guarda caso) dell'arte ai nostri giovani significa appiattire ulteriormente un popolo. Significa proprio arrenderci a non riconoscere più in cosa dobbiamo credere come ricchezza, materiale o immateriale che sia. Sbrodolare insieme ciarpame e incanto: significa, in poche parole, non essere più giovani, ma soltanto ancora utili. Io non ci sto.