È un principio sacrosanto quello di far valere la propria cittadinanza culturale e immettere nel circuito asfittico del pignoramento della felicità una nuova volontà di riscatto, una determinazione che si configura come una battaglia epica per l'autoaffermazione. Non sprecare la bellezza, a iniziare dalla propria, sembra dire la protagonista di questo romanzo. Nel libro della Avallone una medesima precarietà appartiene ai due protagonisti che la declinano però in modi differenti. Marina aderendo a un modello che strizza l'occhio alla scorciatoia per il successo, e Andrea che invece prende la via aspra della fatica ripercorrendo a ritroso la via dei propri avi buttando alle ortiche un presente che si preannuncia operoso e stabile sulle orme del padre. Una vita quella di Marina giocata sull'equilibrio instabile dei tacchi a spillo, e la vita di Andrea che ricalca quella quasi monacale di un eremita folle che vuole scoprire di nuovo il sapore della terra. Entrambe le vie sembrano atti di accusa a una politica distratta che ha previsto la precarietà come modus vivendi delle generazioni giovani, modi ai quali essi cercano di rispondere con la forza delle idee o del corpo. Messi davanti a scelte forzate, per i giovani le vie che si aprono portano spesso oltre confine. E per quelli che rimangano si prospettano ricerche sempre più astruse non prive di umiliazioni, oppure invenzioni estreme ma non insensate come quelle di Andrea, che vuole diventare allevatore rifiutando lo schema di affermazione stereotipata, oppure l'invenzione di Marina che poi invenzione non è, ma consapevolezza della sua procacità provocante, della sua solare bellezza, che la induce a una sfrontatezza che può essere il ticket per il successo o per il ritorno al cortile di casa. Entrambi si giocano letteralmente la loro possibilità contro un destino chiuso fatto di proposte nulle o peggio ancora indecenti.
È un principio sacrosanto quello di far valere la propria cittadinanza culturale e immettere nel circuito asfittico del pignoramento della felicità una nuova volontà di riscatto, una determinazione che si configura come una battaglia epica per l'autoaffermazione. Non sprecare la bellezza, a iniziare dalla propria, sembra dire la protagonista di questo romanzo. Nel libro della Avallone una medesima precarietà appartiene ai due protagonisti che la declinano però in modi differenti. Marina aderendo a un modello che strizza l'occhio alla scorciatoia per il successo, e Andrea che invece prende la via aspra della fatica ripercorrendo a ritroso la via dei propri avi buttando alle ortiche un presente che si preannuncia operoso e stabile sulle orme del padre. Una vita quella di Marina giocata sull'equilibrio instabile dei tacchi a spillo, e la vita di Andrea che ricalca quella quasi monacale di un eremita folle che vuole scoprire di nuovo il sapore della terra. Entrambe le vie sembrano atti di accusa a una politica distratta che ha previsto la precarietà come modus vivendi delle generazioni giovani, modi ai quali essi cercano di rispondere con la forza delle idee o del corpo. Messi davanti a scelte forzate, per i giovani le vie che si aprono portano spesso oltre confine. E per quelli che rimangano si prospettano ricerche sempre più astruse non prive di umiliazioni, oppure invenzioni estreme ma non insensate come quelle di Andrea, che vuole diventare allevatore rifiutando lo schema di affermazione stereotipata, oppure l'invenzione di Marina che poi invenzione non è, ma consapevolezza della sua procacità provocante, della sua solare bellezza, che la induce a una sfrontatezza che può essere il ticket per il successo o per il ritorno al cortile di casa. Entrambi si giocano letteralmente la loro possibilità contro un destino chiuso fatto di proposte nulle o peggio ancora indecenti.
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