La bellezza e le “offese” di Pollock

Creato il 05 novembre 2011 da Stroszek85 @stroszek85

Riprendendo il discorso dell’articolo precedente, sento il bisogno di specificare il senso del concetto di bellezza sensoriale, che avevo espresso in generale, senza approfondire alcune caratteristiche che ritengo importanti, per ciò che dirò nei successivi interventi.
Una trattazione a parte meriterebbe la bellezza comunemente intesa, la quale indubbiamente ha avuto grandi cambiamenti, dall’epoca classica a quella moderna, anche grazie agli espedienti innovativi e tecnologicamente avanzati, prodotti dalla “modernità”, ancor più significativi ed evidenti nei nostri giorni. Si chiarisce l’affermazione se si passa, velocemente con l’immaginazione, dall’uso del maquillage verso la metà dell’800, che tanto affascinava Baudelaire, alle operazioni chirurgo-plastiche, che attualmente manifestano un uso tanto smodato e improprio del bisturi e delle protesi al silicone da cambiare in maniera permanente l’aspetto del paziente (sia detto in senso neutro, visto che ormai, infatti, non sono più solo le donne a ricorrervi…).

E’ chiaro però che il discorso, per quel che ci interessa ora, deve essere indirizzato nell’ambito artistico. Con il concetto di bellezza sensoriale avevo in mente, molto semplicemente, quel tipo di bellezza artistica che fa riferimento al motto popolare “anche l’occhio vuole la sua parte”. Insieme all’occhio, evidentemente, anche tutti gli altri sensi non mancano mai di far valere il proprio peso sulla percezione di ciò che è bello e di ciò che è brutto, assumendosi il difficile compito di fare contemporaneamente da filtro e da tramite fra emittente e ricevente del messaggio artistico. Le differenze, talvolta abissali, nell’attribuzione della bellezza ad una cosa piuttosto che all’altra, sono subordinate al fatto che essa è condizionata sempre dall’esperienza soggettiva, e cioè dalla percezione che ognuno di noi ha del fenomeno nel momento stesso in cui lo vive e dall’elaborazione che successivamente si compie, ognuno con criteri propri. E’ scontato dire, dunque, che la percezione estetica del fenomeno possa essere condizionata anche da fattori che nulla hanno a che vedere con l’opera d’arte in sé: fattori disturbanti diversi tra individuo e individuo, ma anche relativi ai momenti particolari in cui lo stesso individuo dispone della stessa opera d’arte, con stati d’animo e propensioni variegati, ricevendone altrettante impressioni diverse.

Lasciando l’approfondimento dei temi laboriosi del fenomeno (in senso filosofico, in campo scientifico) e della percezione alla curiosità del lettore, in quanto richiederebbero strumenti scientifico-filosofici molto dispersivi in questa sede, mi limito soltanto ad accennare come ritengo essenziale, per una buona fruizione del messaggio artistico (soprattutto se trattasi di messaggio esteticamente valido), limitare gli elementi di disturbo della percezione – o perlomeno soppesarne e valutarne l’impatto –, da qualunque fonte provengano, a maggior ragione se questi si palesano direttamente nella stessa opera d’arte. Intendo dire che, affinché il messaggio arrivi a destinazione nel miglior modo possibile, onde provocare nel ricevente le reazioni migliori, attraverso effetti adeguati, è essenziale che esso sia strutturato da elementi estetici non eccessivamente “offensivi” per la sensibilità del ricevente; esso non deve mai oltrepassare una certa soglia-limite di sopportazione degli organi sensitivi umani: pena la totale irricevibilità da parte del lettore-ascoltatore-spettatore del messaggio dell’opera d’arte in questione – non si tenga conto, ora, della reale importanza di tale messaggio, che potrebbe essere la Divina Commedia come la Vispa Teresa… Il rapporto tra il messaggio emesso e il destinatario, nell’eventualità che venga superata tale soglia-limite, in ogni caso, rimane incompleto, riducendolo a lettera morta o distorta.

Non mi riferisco tanto alla mania di recepire, per esempio, un messaggio musicale tenendo il volume troppo alto, o di doverlo intendere mentre si è circondati da rumori non funzionali ad esso, oppure, ancora, a fare contemporaneamente diverse cose, ostacolando in questo modo, la lettura di un libro, o la visione di un film, o di un’opera teatrale, etc.; tutte cose che impediscono fin troppo chiaramente una decodifica attenta del messaggio. Mi riferisco, piuttosto, a quando il rumore di intralcio o l’elemento di disturbo è contenuto nel messaggio stesso, per via delle scelte stilistiche dell’autore medesimo. So perfettamente che talvolta l’autore originale, impegnato profondamente nella propria opera da una ricerca indefessa, è portato a opzioni “urticanti” la sensibilità comune, proprio in nome della funzionalità dell’opera, che gli richiede, giocoforza, determinate scelte, secondo una specifica poetica. Il problema però, a mio avviso, è che quando queste scelte travalicano quella soglia-limite di cui sopra – qualcosa che può assomigliare spesso alla soglia-limite del dolore, o più frequentemente alla soglia-limite del fastidio –, ecco che si verifica quell’incomunicabilità tra autore e fruitore – o meglio, quell’impossibilità di una compiuta ricezione del messaggio –, cui accennavo poco sopra. Voglio dire, può crearsi spesso una sorta di “corto circuito” nella percezione del messaggio, a meno che, naturalmente, non sia lo stesso destinatario ad auto-imporsene la ricezione, pur rendendosi conto di fare “offesa” alla propria sensibilità spontanea e di subire i segnali inevitabili di fastidio lanciati dai propri organi percettivi, per cui, scavalcandoli con un gesto di volontà, decida di occuparsi unicamente di tale messaggio da un punto di vista intellettuale. Si interesserà, di conseguenza, della natura profonda di quella determinata opera e affronterà il discorso attorno ad essa, rendendosi conto che da essa, in ogni caso e nonostante tutto, è imposta al ricevente l’importanza di quel messaggio, sia che egli lo capisca sia che, al contrario, non lo capisca. In altri termini ancora, il messaggio arriva al ricevente perché è quest’ultimo ad allontanare di un gradino la propria soglia del fastidio, in virtù dell’importanza che egli attribuisce al messaggio in questione, e magari ravvisando una coerenza strutturale tra quella forma espressiva, così apparentemente fastidiosa (valutandone, cioè, pertinente ed appropriato l’uso), e il contenuto.
Essa è, quindi, operazione fortemente intellettuale, da cui l’idea connessa di “cerebralismo”, protagonista dell’articolo precedente, che scientemente ignora i segnali più o meno espliciti degli organi percettivi, strettamente connessi, fisiologicamente legati, al “loro” concetto di bellezza – quella sensoriale, appunto.

Senza voler indagare, ora, se questo sia un concetto innato, un costrutto dell’esperienza oppure una qualche via intermedia, sarà evidente come sia impossibile convincere un occhio abituato ad ammirare la Nascita di Venere del Botticelli, che quest’ultima appartenga alla stessa categoria di “bellezza” dell’action painting dei Pali Blu di Jackson Pollock. Sarà evidente che quest’ultimo per essere “goduto” appieno dovrà essere valutato secondo una categoria di bellezza del tutto differente, che vede nella casualità del gesto artistico sempre e comunque un sovrasenso intellettuale: le macchie non potranno essere viste soltanto in quanto macchie, ma in quanto forme esteriori di uno stato interiore – cui si arriva dopo un procedimento esecutivo dell’opera, una sorta di rito quasi sciamanico –, che sarà il vero protagonista della volontaria – e disperata – distorsione del percetto operata sull’opera. Mentre nel Botticelli la bellezza intellettuale è raggiunta da una coerente e ineccepibile bellezza sensoriale, schiettamente realista, tipica e consona alla sua epoca: il Rinascimento; in Pollock invece la bellezza, intellettuale o sensoriale che sia, non sarà affatto un obbiettivo perseguibile: tutt’altro! Sarà piuttosto un obbiettivo “perseguitato”, in quanto la conoscenza del proprio stato interiore potrà essere raggiunta solo tramite l’”offesa” della bellezza sensoriale, nella sua contraddittoria essenza dualistica di disperazione esistenziale e fede incrollabile nel ruolo e nelle possibilità odierne dell’Arte. La “bellezza” ottenuta, ma è questione molto soggettiva, sarà una bellezza non immediata, intellettualmente evoluta, “cerebrale” (e, tra l’altro, un cerebrale cui si giunge attraverso una fisicità incontrollata). Anch’essa, come quella del Botticelli, operazione coerente, tipica e consona alla propria epoca di appartenenza: la Guerra Fredda. Però mentre quella risulterà facilmente fruibile anche dall’ammiratore ingenuo (e, inoltre, facilmente godibile oggi, per noi che veniamo mezzo millennio dopo, come lo era anche allora dall’ammiratore casuale della sua epoca…); quest’altra gli provocherà “fastidio”, questa “offenderà” il suo occhio, e lo farà consapevolmente, scientemente, per una precisa esigenza poetica, cui l’Artista non rinuncerebbe mai, rivelandosi dunque difficilmente recepibile per chiunque, non solo per l’ammiratore ingenuo – e, inoltre, difficilmente recepibile allora, per chi poteva ammirarlo casualmente, da qualche parte, per pochi centesimi, come per noi che veniamo 60 anni dopo, che possiamo leggere infiniti, dottissimi studi sull’Autore e sulla sua Opera Omnia e che, se mai dovesse pungolarci la voglia di acquistare qualcosa di Suo, dovremmo sborsare milioni e milioni di dollari, ammesso che trovassimo qualcuno disposto a vendere…

Ora, il caso di Pollock è uno dei tanti che si potrebbero fare, ma è un caso emblematico che rappresenta tutti quegli artisti che pongono come base per il proprio approccio operativo lo sperimentalismo più puro e oltranzista: quegli stessi che, proprio in tale oltranzismo, vedono lo strumento più autentico del proprio messaggio e la verità significativa più profonda da consegnare alle riflessioni e alla sensibilità della propria civiltà.
Il fatto evidente – e dolente – quindi è che essi pur avendo in serbo messaggi di grande importanza per il mondo contemporaneo e per i suoi abitanti, e pur essendo gli unici, forse, ad avere le qualità intellettuali e (spesso) etiche per poterli pronunciare con coerenza e convinzione, raramente vengono ascoltati dalla maggior parte di essi, perché, visto che le forme espressive delle opere depositarie di tali messaggi superano, appunto, quella fatidica soglia-limite del fastidio, sono i loro stessi organi di senso a ribellarsi agli effetti più o meno “oltraggiosi”, che su di essi infieriscono attivamente, sensibilmente e che, a causa del più puro e semplice istinto di conservazione, li portano ad allontanarsi in maniera decisa e radicale da tali opere.
Ecco dunque evidente, spiegata e apparecchiata sotto gli occhi di tutti, la funzione di elemento-tramite fondamentale, incarnata dalla bellezza sensoriale di cui parlo; funzione che credo, ormai, irrinunciabile per risolvere il “corto circuito” tra Autore di valore e Fruitore ingenuo; funzione vecchia come il mondo, si dirà, e lo sappiamo tutti, ma funzione purtroppo abbandonata da un pezzo dagli Autori veramente di valore, dagli Autori che hanno veramente qualcosa da dire e da dare alla nostra civiltà in declino.


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