La lentezza, però, ha anche un pregio: permette agli attori della vicenda di guardare e guardarsi. Difatti, i termini "sguardo" (e suo plurale) e "occhi" (e suo singolare) ricorrono con insistenza: 94 sguardi e 128 occhi che, sintetizzando con una media matematica, fanno un occhio ogni pagina e mezza e uno sguardo ogni due, o poco più. Questa eccessiva insistenza sulle iridi è stranamente sfuggita in corso d'editing, tanto che, proprio un'occhiata al paesaggio, ci introduce agli accadimenti del thriller.
Nel prologo - pagina 7 - una monaca, presa da mestizia, osserva il panorama. Nel primo capitolo - pagina 11 - anche Ignazio scruta l'orizzonte "tra i chiaroscuri del tramonto". La coincidenza fa pensare che i protagonisti godano di molto tempo libero.
Ignazio Alvarez ha "occhi scaltri e una barba da filosofo" (pagina 11), nonostante di mestiere faccia il mercante; uomo dalle molte - e continue - intuizioni, è costretto a spiegare più volte gli avvenimenti agli altri personaggi, premendo il tasto pause al lettore. Lo segue in questa avventura il figlio Uberto, ragazzo con "Non più di venticinque anni, lunghi capelli neri e sottili occhi ambrati" (ancora a pagina 11); noterete che Uberto sta crescendo bene, tanto da insidiare il ruolo di bellone a Willalme, che completa il trio dei protagonisti.
Sibilla - la signora Alvarez - appare brevemente solo nel finale, ma il suo spirito aleggia lungo l'intera vicenda, un po' come accade alla consorte del tenente Colombo. Nonostante la sua lunga irreperibilità, questo è un thriller dalle molte presenze femminili, a cominciare da Bianca di Castiglia, che "Non aveva ancora compiuto quarant'anni e, benché avesse da poco dato alla luce l'undicesimo figlio, appariva fresca come una rosa" (pagina 41).
Siamo nel 1227 e la regina sparisce all'improvviso. L'aiuto di Ignazio sarà fondamentale per ritrovare lei e un antico manoscritto, il Turba philosophorum, in cui Pitagora svela come variare la natura degli elementi. O, per farla breve, come contraffare monete d'oro, spacciandole per buone: denaro, alchimia e rapimento portano al castello di Airagne, dal temibile Conte di Nigredo. Questa, in sintesi, la trama.
Seguendo Ignazio e compagni, a volte ci imbattiamo in qualche stranezza. A pagina 15, ad esempio, il mercante consegna una missiva con sigillo regio per essere ammesso alla corte di Ferdinando di Castiglia. Lettera che, tanto per complicarsi la vita, un "cavaliere [...] afferrò con la mano inguantata di ferro, lesse attentamente e [...] restituì". Farlo senza guanto sarebbe stato più semplice, ma qui le intuizioni sono riservate al mercante, uomo dotato di grande arguzia e "tetragona impassibilità" (pagina 22).
Curiosa anche la serie di circostante che portano Uberto - dagli "occhi felini" (pagina 71) - a incontrare il castellano di Montségur - dagli "occhi astuti, simili a quelli di un furetto" (pagina 67). Il fortilizio è ben difeso e il giovane vi giunge senza invito, eppure, chiedendo, sarà accompagnato dal padrone di casa, che lo farà imprigionare; in seguito, con lo stesso cortese proporsi, Uberto otterrà d'essere segretamente liberato dalla detenzione. In quell'occasione, la castellana - a gentile richiesta - gli farà avere anche la preziosa copia del Turba philosophorum. Il manoscritto gli viene consegnato nonostante sia di inestimabile valore: custodisce, infatti, i segreti di Airagne, dimora del cattivo (si veda pagina 83) e prigione della regina Bianca. "Chiedendo si va a Roma", recita un proverbio, e a Montségur la pratica consente di fare decisivi passi avanti nello sviluppo del plot.
Pregevole anche l'atto conclusivo della fuga di Uberto: dopo un ultimo saluto alla sua liberatrice, la guarda scomparire "come un leprotto fra la boscaglia" (pagina 87), immagine piuttosto disneyana.
Durante l'evasione, Uberto s'imbatte in un'altra bella donna: Moira, che, manco a dirlo, "Era veramente incantevole con quegli occhi allungati, il volto ovale tra le ciocche color ebano" (pagina 106). La ragazza viaggia in compagnia di un misterioso cane dagli "occhi lupini" (pagina 77), uscito da non si sa dove e inspiegabilmente deciso a proteggerla.
Incontrerà anche un ossesso - lo stesso che tanto ha costernato la monaca nel prologo - che si fa notare per la quantità di vocali nel parlato: "Il Conte di Nigreeeedo... [...] Sìììì, è cosìììì... Il Conte di Nigreeeedo..." (pagina 120), il pazzo - con curiosi gorgheggi - conferma di conoscere il cattivo. Fortunatamente riesce anche a dare indicazioni sulla prigionia della regina: "Sìììì. [...] L'ho viiiista prima di fuggiiiire. È la regina Biaaaanca..." e poi, dimostrando scarso interesse per la reclusione della sovrana, termina il suo exploit inneggiando alla libertà conquistata: "Ma io sono fuggiiiito! Soooono fuggiiiito, fuggiiiito!". La trovata letteraria è degna dell'ossesso, appunto.
Il tizio, però, non è folle come sembra; Ignazio - dal "sorriso volpino" (pagina 130) - riscontra in lui i sintomi del saturnismo: il mercante li fiuta al volo. Del resto, Ignazio è "una mente illuminata" (pagina 131) e "un uomo di indubbio acume" (pagina 175).
Tra le comparse spiccano anche Jean-Bevon, dallo "sguardo torbido" e l'"alito avvinazzato" (pagina 153) - nomen omen - e Frenerius de Gignac, monaco lascivo affetto "da morbo gallico" (pagina 194), o sifilide. La diagnosi, però, comporta una serie di quesiti: il primo caso certo d'epidemia sifilitica in Europa risale al 1494, quando le truppe francesi assediarono Napoli. Secondo molti studiosi, il morbo venne importato dal Nuovo Mondo coi viaggi di Colombo; secondo altri, la malattia era già conosciuta ai tempi antichi. Qualunque sia l'origine della sifilide, è "opportuno sottolineare" - sostiene Mondi Medievali - "che i più recenti studi di biologia molecolare e di biochimica condotti su reperti ossei appartenenti all'area del bacino mediterraneo, di epoca anteriore al 1400, non hanno rilevato, fino ad oggi, tracce certe della malattia". La biblioteca perduta dell'alchimista, pertanto, potrebbe essere il tassello mancante alla storia di tale flagello.
Concludo la disamina con un richiamo alla fascetta del precedente Il mercante di libri maledetti, in cui il libro veniva definito "Avvincente come Il nome della rosa ". Forse proprio per questo la scena dell'incendio di Airagne, la tana del cattivo, assomiglia in maniera così sorprendente a quello della biblioteca del capolavoro di Eco. Ignazio rischia la vita per amor di conoscenza, arraffando "dagli scaffali quanti più libri poteva, accumulandoli uno sopra l'altro nel disperato tentativo di sottrarli alle fiamme" (pagine 303), come, a suo tempo, Guglielmo da Baskerville. Le somiglianze degne di nota si fermano qui.