La biologia di una lacrima. Vittorio Reta

Creato il 20 febbraio 2016 da Vivianascarinci
p.46 p.47

Sai, sono anche capace di/portare avanti un contesto perché tutta l’attenzione è concentrata /nel costruirti una frase sul viso e scavarti un ritratto

Vittorio Reta


Julia Kristeva pubblica in Francia La révolution du langage poétique nel 1974, il testo esce in Italia per la prima volta da Marsilio nel 1979. Visas di Vittorio Reta viene pubblicato da Feltrinelli nel 1976. L’anno dopo, nel mese di settembre, il corpo di Reta viene rinvenuto cadavere nelle prossimità di Recco. “assolutamente da leggere in /un rischio” scriveva il poeta di Visas “il fatto di essere ciò che si scrive”.

Visas che è stato scritto per Patrizia Vicinelli, come recita la dedica all’inizio del libro, è diviso in tre sezioni ognuna delle quali riporta un esergo in lingua francese: la prima si intitola 1969-1970 e l’esergo è di Julia Kristeva. Nella seconda parte che si intitola Treni 1968 l’esergo è ancora di Kristeva. Infine nell’ultima parte intitolata Sinapsi e Synopsis 1975 l’esergo è di Philippe Sollers, filosofo e romanziere francese compagno e poi marito di Kristeva dal 1966, altrimenti noto come fondatore, nel 1960, della rivista Tel Quel che Reta conosceva e leggeva.

Ne La rivoluzione del linguaggio poetico* testo dalla cui versione originale potrebbero essere stati tratti gli esergo presi da Kristeva, c’è l’intenzione da parte della psicanalista di origine bulgara, di dimostrare come tutto ciò che viene definito ordine e perciò comunemente accettato dalla società, possa essere messo in discussione da una dicibilità i cui fondamenti sono diversi e si legano al composito, al difforme e all’irrazionale proprio attraverso il linguaggio della poesia. In quest’ottica quello che viene definito senso nell’ambito di un discorso poetico, assume su di sé una pluralità che sembra inesauribile, proprio perché non si rapporta al senso comune (o a ciò che vi è comunemente contrario) ma si rapporta all’individualità del poeta, alla sua irripetibile soggettività psicologica. Scrive Kristeva “Resta l’infinitesimale vortice delle forme attraverso cui si muovono il senso e nostri corpi. Senza comunità, ciascuno per sé (per un sé non identico) ma senza il “dio per tutti”. Marginalità intrinseca, obbligatoria. E rivoluzione in profondità. Penso che, tramite questa “rivoluzione del linguaggio poetico”, nel secondo senso dell’espressione or ora indicata, siamo a una nuova fase del discorso che ormai da duemila anni l’occidente fa a se stesso”.

Riferisce Cecilia Bello Minciacchi, nella prefazione del Visas edito per la casa editrice Le Lettere nel 2006, che Vittorio Reta, attraverso una lettera indirizzata al prefatore della prima edizione di quel libro, rimprovera a Luciano Nanni di aver voluto interpretare le sue poesie partendo da un’attribuzione di senso dato a ogni singola parola “sbagliato pensare l’universo interiore dell’autore attraverso i significati prodotti dalle parole” scriveva Reta, in quanto Visas non appartiene a un panorama noto in cui il lettore può orientarsi ma “viene attraversato da una vera e propria nevrosi del linguaggio”.

Forse qui è opportuno ricordare che la definizione comune di nevrosi è quella relativa a un dis-ordine di natura prevalentemente psicologica, derivato da un conflitto tra l’individuo e l’ambiente. Nel caso delle nevrosi il rapporto con la realtà risulta essere disturbato, difficile da gestire, ma c’è e esiste nel suo essere precipuo. È proprio Kristeva che spiega, e Reta probabilmente assorbe, il modo nel quale ciò accade attraverso il linguaggio poetico “Strumento della rimozione, il linguaggio poetico ritorna sulle proprie tracce e a forza di ripassare di là fa si che avvenga il rimosso. Non come sintomo o come angoscia consunta, analizzata. Ma quasi aurora sopra la notte, quasi luce piena sul viso incavato, quasi iperbole di un fuoco incessante”.

Secondo Bello Minciacchi, Luciano Nanni risponde con implacabile onestà intellettuale, toccando al cuore un’altra questione fondamentale relativa a Visas “non poteva (Reta ndr) chiedere due cose contraddittorie: non poteva chiedere che la comunità, che io (Nanni ndr) rappresentavo in quanto prefatore, considerasse poesia i suoi testi e nello stesso tempo pretendere che la comunità li leggesse nell’unico modo in cui li leggeva lui. Doveva scegliere, altrimenti sarebbe diventato l’assassino delle sue poesie”.

Quel concetto ambivalente di comunità riferito a Reta e messo in luce da Nanni, non solo riecheggia nelle parole di Kristeva (Senza comunità, ciascuno per sé (per un sé non identico) ma senza il “dio per tutti”) ma ritorna in alcune considerazioni di Edoardo Sanguineti (in Atlante del Novecento italiano, Piero Manni, 2001) rispetto a un possibile motivo per cui l’importanza di Visas non saltò immediatamente agli occhi dei suoi contemporanei “In certo modo anche qui (in Visas ndr) è un io diviso che si presenta conclusivamente e porta nella scrittura questi tratti specifici di rottura e di frammentazione. In questo modo mi pare possa testimoniare di una possibilità che poi è stata in fondo trascurata, non perché si tratti di indicarlo come modello possibile, ma perché sta a significare che non era impossibile pensare a direzioni di ricerca dopo la nuova avanguardia, anche al di fuori di quella che era la poetica organizzata”. E proprio in una poesia raccolta nella sezione Altre poesie dell’edizione di Visas edita da Le Lettere, viene espresso di fatto il motivo estremamente consapevole per cui Vittorio Reta proprio non poteva e non voleva essere immaginato entro quel che Sanguineti definisce enigmaticamente “poetica organizzata”:

“L’ordine di cui non mi ricordo più/cancella tutto l’ordine alfabetico che aveva rifiutata ogni origine di grigiore in grigiore/certi frammenti sembrano seguire per affinità regioni inesistenti/ma l’importante che queste piccole reti non siano raccordate/né che scivolino al suo senso che franino/è per smettere deviare sviare questa discesa del discorso verso il vischioso/un destino del soggetto che a momenti l’alfabeto riporta all’ordine/dal disordine si può tagliare e voi dite di farlo/ma a volte è la stessa ragione che fa rompere l’alfabeto/ma questa la parte di una vibrazione dottrinale che ordina l’embrione”

Se il principio è quello della frantumazione dell’io, Reta è figlio precoce del suo secolo “Il linguaggio poetico è la messa a nudo di questa logica, di questa rivoluzione che costituisce l’essere parlante in quanto parla cioè ripete senza sosta le proprie rotture, le proprie separazioni e le sposta indefinitamente, all’infinito, per farne quel che poi risulta un senso” scrive Kristeva. Reta realizzando in poesia quando indicato da Kristeva, finisce per scrivere fuori di sé e così facendo parla a un livello più profondo e connaturato sia alla dedicataria del libro che alla comunità cui si rivolge. E se è vero che il Novecento, come indica Bello Minciacchi, è il secolo del montaggio e non più della sintassi, Reta ha scritto quanto di meglio si potesse rispetto all’espressione consapevole di frammentazione e separatezza tanto del vissuto quanto dell’invissuto, la cui sintassi è impossibile a darsi se non di fatto attraverso una radicale e individuale rivoluzione poetica.

Come non scegliere allora Julia Kristeva per gli esergo del suo Visas? Kristeva ha scritto che il linguaggio della poesia introduce un’apertura sovversiva all’interno di qualsiasi ordine simbolico chiuso “Quello che la teoria dell’inconscio vede, il linguaggio poetico lo pratica”.

Come non scegliere Patrizia Vicinelli come dedicataria di Visas. Vicinelli (1943-1991) è stata una figura di spicco della poesia di avanguardia e performer. Si dedicò anche al cinema underground e alle arti visive. Peraltro, tra le molte opere prodotte da Vicinelli anche un’insolita versione della favola di Cenerentola: detenuta a Rebibbia tra il 77 (anno in cui Vittorio Reta moriva) e il 78, Vicinelli compose e mise in scena nell’ambito carcerario Cenerentola una pièce teatrale di cui fu anche regista, che coinvolgeva le detenute in un radicale stravolgimento dell’identità femminile attraverso la riscrittura di una delle favole più note e narrata soprattutto alle bambine.

Attraverso una pratica di vita dura e totalmente al di fuori degli schemi, l’esperienza artistica e esistenzialmente controversa di Patrizia Vicinelli, evidenzia l’amenità di un rigore granitico concretamente capace di una poesia fatta di cose, come sottolinea Guido Guglielmi “La Vicinelli si incontra incontrando la fisicità delle cose. L’apertura al mondo è apertura su se stessa”. Così come Antonio Porta riteneva che quello di Vittorio Reta fosse un indirizzo “mediterraneo” volto a un viaggio alla ricerca dell’altro da sé e animato da un’energia “applicata ostinatamente a un recupero del reale e a un recupero della madre”. Scriveva Reta “i contrari diventano analogie /che emanano purezza”.

Stefano Scondanibbio (1956-2012) intitola Geografia amorosa una sua opera per contrabbasso, sottraendo questo titolo a un verso di Reta e mettendo in musica quella singolare nevrosi del poeta di Visas, il cui significato coincide con un viaggio che ai più forse parve mancante di senso ma la cui destinataria stava scritta a chiare lettere all’inizio del libro. Così Scondanibbio coglie meglio di altri l’importanza assoluta dell’aspetto dedicatorio e simbolico delle poesie di Visas. Al libro Visas e altre poesie  pubblicato da Le Lettere nel 2006 a cura di Cecilia Bello Minciacchi è allegata l’altra opera musicale che Scondanibbio dedica completamente al poeta: Visas per Vittorio Reta.

Stefano Scondanibbio compositore e contrabbassista tra i più importanti del Novecento italiano, scriveva riferendosi alle composizioni musicali che aveva spesso dedicate al contrabbasso “un’espressione del desiderio di aiutare lo strumento a trovare finalmente la propria voce, dopo aver conosciuto solo il balbettio di voci inappropriate o le sadiche violenze della cosiddetta avanguardia”. Scondanibbio compose più di 50 opere quasi tutte per strumenti a arco, nell’opera che dedica interamente a Visas, legge lui stesso, credo come non potrebbe essere interpretata altrimenti la poesia di Vittorio Reta, la quale, diceva già Antonio Porta a suo tempo, era ed è soprattutto bellissima.


Materiali

dagli appunti manoscritti di Antonio Porta per gentile concessione di Rosemary Liedl: “è il poeta con più spessore di questi anni, ‘poesia come corpo’, perché riesce a tracciare nella sua andatura discorsiva/epistolare un ritmo preciso e sinuoso, lungo linee di tensione mai allentata… lingua = linguaggio = corpo = movimenti = viaggi = fughe. Reta è il poeta del viaggio in ogni senso (droga e geografica), è nomade e segue la strada della sua sintassi ma il viaggio rischia sempre di essere senza ritorno…”

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Antonio Porta su  Poesia degli anni Settanta (Introduzione, antologia e note ai testi di Antonio Porta; prefazione di Enzo Siciliano. Milano, Feltrinelli, 1979). Vittorio Reta si è servito del linguaggio elaborato nel decennio precedente per il proprio viaggio, un viaggio che a poco a poco si è trasformato nel suo corpo lungo linee di tensione condotte fino all’insopportabile per arrivare a scoprire, infine, la purezza della voce che racconta e poi decidere di non avere più nulla da dire, e spegnerla. Reta ha cercato, forse, nella morte quello che ha cercato nella vita: “cancellare i regni della notte precedente” e fissarsi in un “atto luminoso”. Di qui il suo nomadismo ben consapevole di non poter raggiungere alcuna meta se non quella di una momentanea sospensione del tempo come nella stazione in cui “nel quadrante rosso rosa … le lancette si erano fermate per un mese”.

Mentre Gastone Monari (autore di Pur che tutti ridano, pubblicato nel 1973), altro suicidio che pesa nella poesia del decennio e la segna anche con l’impronta del silenzio, è rimasto in gran parte prigioniero di una coazione a ripetere che gli ha impedito di affrancarsi da influenze dirette appena precedenti, Reta si muove con libertà nella dimensione del racconto almeno fino alle poesie finali in cui ha maturato la volontà di non dire più, rasentando l’afasia nel tentativo di recuperare una densità semantica che non poteva essere sua (e che era stata invece di Giuliani nel Tautofono).

A questo punto i due silenzi (di Monari e di Reta) si ricongiungono e sul linguaggio della poesia si allunga di nuovo un’ombra di sospetto. Ma è un sospetto ingiustificato: quella di Reta è stata una scelta consapevole, come il suo viaggio, come il suo linguaggio ed è proprio la sua poesia che ci lascia un’eredità di vita non eliminabile. “ecco, vedi, abito questo episodio al punto di non poterlo descrivere … “: è questo il rischio di una totale identificazione tra corpo e scrittura e le vie di uscita possono essere illusorie. Si elimina solo il corpo e la scrittura rimane, come segno di contraddizione, quale è, nella cultura contemporanea.

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Vittorio Reta è nato a Genova nel 1947 ed è morto suicida sulle alture di Recco, a Megli, nel settembre del 1977. Laureato in lettere, ha poi frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, lasciando un film incompiuto. Nel 1976 ha pubblicato, nella collana “gialla” Feltrinelli, Visas, dedicato a Patrizia Vicinelli e con una prefazione di Luciano Nanni. Nel 1979 Antonio Porta incluse alcuni testi di Visas in Poesia degli anni Settanta e nel 1981 Stefano Verdino e Loredana Prada Moroni altre poesie nell’antologia Poeti in Liguria. Edoardo Sanguineti è tornato a ricordare la sua figura in Atlante del Novecento italiano (a cura di Erminio Risso, Piero Manni, 2001). Di recente Reta è stato inserito, a cura di Cecilia Bello Minciacchi, nell’antologia a più voci Parola plurale. Sessantaquattro poeti tra due secoli (Luca Sossella, 2005) da qui

 * gli estratti che riporto da “La rivoluzione del linguaggio poetico” provengono dall’edizione edita da Marsilio nel 1979 ottenuta temporaneamente tramite prestito bibliotecario. Sto cercando di acquisire per il Fondo Librario di Morlupo quell’edizione (e non quella successiva da Spirali edita nel 2006). Se qualcuno può aiutarmi nella ricerca scriva c.libellula.m@gmail.com grazie.

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