La buca

Creato il 15 ottobre 2014 da Af68 @AntonioFalcone1

Mi ha piacevolmente sorpreso la visione del film La buca, seconda regia autonoma di Daniele Ciprì dopo E’ stato il figlio (2012) e le precedenti realizzazioni in coppia con Franco Maresco, in primo luogo per la capacità di dare vita, già in fase di scrittura (la sceneggiatura è opera dello stesso Ciprì, insieme ad Alessandra Acciai, Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo), ad una particolare favola dai toni grotteschi e surreali, sospesa in un’intenzionale e ricercata astrazione di tempo e luogo, movimentata da un intrigante melange di più generi cinematografici (il buddy movie e il cinema americano degli anni ’40-’50, la classica commedia all’italiana, il giallo) ed infine circoscritta in una disamina sagace e tagliente di certo malcostume italico, senza sconto alcuno. La mai indomita arte d’arrangiarsi avvolge nelle sue spire anche i puri di cuore e i semplici di spirito, inclini ad assecondare la logica del profitto istantaneo, adeguandosi ad essa senza colpo ferire, approfittando della distanza propria della legge scritta dal concetto di giustizia, fino al suo adattamento “pratico” alle circostanze più varie.

Sergio Castellitto (Movieplayer)

Sono rimasto poi affascinato dalla suggestiva fotografia del film (sempre di Ciprì), la quale avvolge la narrazione nei toni color seppia stile “vecchia cartolina”, ravvivati da una luce giallognola ad incorniciare una serie di flashback che vanno ad intersecarsi funzionalmente nella storia principale, i cui protagonisti riprendono nelle loro sfumature caratteriali le connotazioni proprie della nostra commedia (non solo cinematografica). Ecco quindi l’avvocato Oscar (Sergio Castellitto), leguleio abile nel far sì che la legge porti sempre qualche vantaggio nelle proprie tasche e, particolare secondario, in quelle dei suoi clienti compiacenti, mettendo in atto delle vere proprie truffe, fra l’altro perfettamente congegnate, tanto che il nostro parla al riguardo di “filosofia del diritto”.
La sua strada, complice un simpatico cagnolino, andrà ad incrociare quella di Armando (Rocco Papaleo), appena uscito di prigione dopo aver scontato 27 anni su 30 (buona condotta) per omicidio volontario, reato che però non ha mai commesso: fra questi precari della vita nascerà dunque un’alleanza, in vista di un possibile indennizzo per il torto subito, con un particolare trait d’union rappresentato dalla dolce e sensibile Carmen (Valeria Bruni Tedeschi)…

Rocco Papaleo e Castellitto (Movieplayer)

Il film risulta praticamente dominato dalla valida prova attoriale di Castellitto, volutamente e sapientemente al di sopra delle classiche righe, una sorta di compendio fra l’esuberanza istrionica di Vittorio Gassman, il cinismo del primissimo Sordi e, a tratti, l’eleganza nel porsi in scena propria di Vittorio De Sica (l’arringa in tribunale). Come opportuno contraltare alla cialtronesca figura risalta l’interpretazione dolente e sommessa offerta da Papaleo (mi ha ricordato, in parte, il Totò di Dov’è la libertà…?, Roberto Rossellini, 1952, ma anche certi personaggi di Ugo Tognazzi, rapidamente camaleontici nel mutare la posizione della vela a seconda di dove spiri il vento), senza dimenticare la delicatezza materna espressa da una brava Valeria Bruni Tedeschi. Ciprì sostiene il tutto assecondando un andamento sempre in bilico tra farsa, vecchie comiche del muto e cartoni animati d’antan (l’animazione è d’altronde presente nei titoli di testa e nella sequenza del film che sintetizza una trasferta in Svizzera), miscellanea ulteriormente ravvivata da un incedere sonoro che sconfina addirittura nel musical (in particolare grazie agli interventi pianistici di Stefano Bollani, complemento al motivo principale di Pino Donaggio e Zeno Gabaglio).

Valeria Bruni Tedeschi (Movieplayer)

Non manca comunque, come scritto ad inizio articolo, pur nella descritta cornice antirealistica, idonea a farsi simbolo di un certo immobilismo evolutivo dal punto di vista sociale, un ritratto comunque impietoso del nostro bel paese: la buca del titolo, presente nel film dall’inizio alla fine, rappresenta infatti, almeno questa è la mia interpretazione, la voragine morale mai colmata nel corso degli anni, proficua occasione per ogni sorta di malaffare, da perpetrarsi con identiche modalità, abilitando le solite connivenze compiacenti e, non trascurabile dato antropologico, tristemente omologante.
A parer mio un’opera insolita nel nostro attuale panorama cinematografico, dalla realizzazione complessiva pregevole, che però richiede, come già fatto notare da altri (Paolo Mereghetti), una collaborazione da parte di noi spettatori.

Daniele Ciprì e Papaleo (Movieplayer)

Occorre infatti volgere lo sguardo oltre la rappresentazione deformante e grottesca del reale, dal sentore omnicomprensivo, visualizzata da Ciprì e lasciarsi abbracciare dal fluire narrativo, ben articolato nel susseguirsi dei colpi di scena e delle varie sottotrame.
Lo si può anche considerare un film sperimentale, un nuovo modo di approcciarsi alla commedia, lontano da ogni compiacenza “piaciona”: sfruttare l’immaginario servendosi di più generi e raccontare comunque il reale, circoscritto in una deformante stanza degli specchi dove tutto non è come sembra ma infine appare per quel che è, l’eterno Paese dei Balocchi, con Gatto e Volpe sempre certi di trovare un Pinocchio cui far credere l’esistenza del Campo dei Miracoli e dei suoi alberi dalle monete d’oro.


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