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La bussola dell’aspirante scrittore: dare un’identità ai personaggi

Da Marcofre

È uno dei miei difetti più macroscopici; almeno lo era, adesso cerco di combatterlo fieramente, e chissà che non riesca a vincerlo, prima o poi. Quando scrivo un racconto, finisco sempre per infilarmici. Non che ci sia davvero io, non intendo affermare questo. Bensì che a un certo punto, salta fuori uno sguardo, un giudizio, una parola (o più parole), che appartengono a me. E stonano.

Per chi inizia a scrivere, coi personaggi accade qualcosa del genere: parlano e agiscono come il loro autore. Se questi non dice parolacce, nemmeno loro lo faranno. Se veste in un determinato modo, essi si adegueranno.
L’errore più macroscopico si verifica quando chi scrive ha un titolo di studio medio-alto, e nella storia fa entrare in scena, bambini, oppure persone con un modesto titolo di studio.

In un caso del genere è palese che tra il personaggio che parlava a pagina 29 (con proprietà di linguaggio), e quello che si ritrova a pagina 77 (studi irregolari, presentato qualche riga prima come zotico), manca quello che definisco lo scalino. Perché entrambi parlano allo stesso modo, non c’è affatto lo scarto (io lo definisco appunto scalino), che fa intendere al volo al lettore che è una persona differente. Che l’autore è di prima grandezza, perché riesce a entrare in un altro abito.

Mi rendo conto che non è affatto facile. Soprattutto per chi, come il sottoscritto, ha letto Tolstoj. I protagonisti dei suoi romanzi sono spesso dell’aristocrazia russa, hanno studiato per anni con accanto un precettore, e si vede eccome. Ricordiamo inoltre, che la Russia di Tolstoj aveva una marea di analfabeti, quindi gli estimatori del grande scrittore russo erano suoi simili.

Forse la mancanza dello scalino è ancora più palese in Dostoevskji. È davvero credibile che uno studente che vive a San Pietroburgo, affamato, pensi così tanto (mi riferisco a “Delitto e Castigo”), da scegliere di uccidere, invece di cercarsi un buon lavoro? Non affermo che il romanzo, un capolavoro a mio giudizio, sia scadente, e per nulla aderente alla realtà.

Anzi: è perfetto per il suo periodo storico e aggiungerei che se si vuole comprendere qualcosa anche della natura umana, il buon Dostoevskji è perfetto. Magari iniziando con “Il sosia”, e riservandosi i grossi romanzi per dopo.

Se tuttavia decidi di scrivere, sappi che i grandi del passato hanno goduto di una libertà che tu non avrai, ed è giusto che sia così. Come il mondo, anche la letteratura cambia, e i personaggi di un racconto, o romanzo che sia, devono per forza parlare la loro lingua, non quella dell’autore.

Questo genera degli equivoci interessanti, alle volte. Si legge una storia, dove i personaggi parlano e agiscono in un certo modo; hanno per esempio una moralità che irrita e scandalizza. Poi si incontra l’autore, e si scopre una persona distante anni luce dall’idea che ci eravamo fatti. Proprio perché il suo talento è così smisurato da costruire una storia, e fare in modo di non mostrarsi praticamente mai.

Dare un’identità ai personaggi vuol dire soffiare dentro di loro la vita, ed evitare però di trattarli come cani, da tenere legati alla catena del proprio ego. Sono entità libere, capaci di agire in modo opposto al nostro. Detestabili ai nostri occhi: però autentici.


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