La caatinga

Creato il 22 agosto 2012 da Dbellucci

Esistono luoghi molto veri dove non passa mai la strada principale. Non dico che siano i più belli. Certamente la loro voce ha un’ispirazione ed un fascino indiscreto. Stare appartati è senz’altro una condizione privilegiata. Le Piramidi non sono appartate. Tuttavia, vanno viste. Siccome, però, ciò che resta nel cuore è quello che desta meraviglia, direi di non trascurare i luoghi sconosciuti. Spesso mi chiedo come si vive ad… Altay. Altay è una città della Mongolia. Non ci andrò mai e molti di noi non ci andranno mai. Eppure, sono i luoghi solitari al confine che danno più soddisfazione, e il confine è tranquillamente dietro casa nostra, in molti casi.
Avevo letto un romanzo di Amado, un grande scrittore che ha esordito con lavori di denuncia sociale (“Cacao”, “Sudore”) degli anni ’30, per poi passare ad opere più liriche, con cui è diventato noto. In uno dei suoi capolavori, “Messe di Sangue”, parlava proprio del viaggio epico di alcune famiglie di poveretti dal Nord del Brasile verso San Paolo, in cerca di lavoro. Queste ondate migratorie, molto comuni per tutto il ‘900, hanno contribuito allo sviluppo sconsiderato delle periferie urbane, dando luogo alle celebri favelas. Chi partiva dal Nord aveva di fronte un viaggio terrificante, senza esagerare. La tratta era compiuta per lo più a piedi, sino ai grandi fiumi centrali su cui ci si imbarcava. In ogni caso, generalmente, occorreva attraversare la Caatinga, un’ardua muraglia desertica, poco nota a noi occidentali, che si estende nella fascia preamazzonica. Nella Caatinga non c’erano strade. Ora ce ne sono pochissime, e la maggior parte è sterrata e percorribile solo con grosse jeep. E’ un deserto senza epica e morale, una terra feroce e cattiva, dove non va nessuno e dove non c’è nulla di stupefacente da vedere. E’ ancora piena di ossa. Si partiva con tutta la famiglia, decine di persone, e una parte moriva di stenti, nell’attraversata. Leggevo Amado (“Messe di Sangue” – Garzanti), nelle prime pagine

“Agreste e inospitale si estende la caatinga. Arbusti stenti si innalzano per leghe e leghe nel sertao, secco e selvaggio come un deserto di spine. Serpenti e lucertoloni si trascinano fra i sassi, sotto il sole cocente del mezzogiorno. Sono lucertoloni enormi, sembrano un resto di specie perdute all’inizio del mondo, immobili, senza espressione negli occhi fissi, quasi fossero sculture primitive. Sono i serpenti più velenosi fra quanti ne esistono: il serpente a sonagli e il jararacucu, il jararaca e il cobra corallo. Le spine fanno siepe nella caatinga, è il deserto invalicabile, il cuore inviolabile, la siccità, gli spini e il veleno, l’assenza totale di ogni cosa, del cammino fosse pure il più rudimentale, di ogni albero che dia ombra fresca e frutti sugosi. […]
E attraverso la caatinga, tagliandola in tutti i sensi, viaggia una moltitudine incontabile di contadini. […] Il viaggio ha del miracoloso”.

E’ stato un delirio arrivare alla caatinga, ma quando ci sono arrivato, ce n’è stata in abbondanza. Lì non va mai nessuno, a parte i poveretti che ci vivono. Dall’aereo è una landa rossa macchiata di tracce più rosse, con arbusti e palme, e ampie zone più chiare piene di crepe. Ci sono rilievi coperti di stecchi che ricordano quelli dei deserti americani. Scendendo dall’aereo ci sono 43 gradi. L’aeroporto ha quattro voli al giorno. Da lì facciamo quattro ore in jeep, e solo il giorno dopo, passati 50 Km di sterrato, entriamo nel grande deserto.
Spine è la parola giusta. Un deserto di spine e legno secco. A perdita d’occhio si distendono lunghi arbusti chiari con poche foglie, spine lunghe dieci centimetri, alti cactus (da cui il nome del deserto), sabbia chiara come sale. I sentieri sono coperti di polvere, pochi centimetri di pietre polverizzate su cui affondi i piedi. Restiamo nella caatinga diversi giorni, ospiti di una piccola comunità di agricoltori che vivono in case di fango secco e paglia. Ovviamente, non esiste luce elettrica, acqua corrente, gas… Nulla di tutto questo. Fa giorno alle quattro e alle quattro la gente si alza. Fa notte alle sei, e dopo cena, verso le venti, ci si addormenta. Non si va in giro per la caatinga di notte, e tanto meno con le fiaccole e le torce. Ci proviamo la prima sera ad accendere una torcia e uscire. Dopo alcuni metri arrivano gli insetti. Meglio stare con la luce spenta e godersi il clima che diventa umano e la notte più vera che io abbia mai visto, sconfinata e superba. Restano i canti di tanti animali e le campane delle capre.
Le rocce sono coperte dai segni degli indios del Cearà, e la gente che ci ospita ha i loro tratti somatici. I bimbi sono bellissimi. Mi spiegano che una volta andava attraversato a piedi, e si moriva, e molti sono sepolti nella caatinga. Io dico che lo sapevo, che avevo letto un libro, famoso nel mio paese, che ne parlava. Vuole sapere il titolo del libro e lo traduco.
Nella caatinga ho visto la più bella sabbia, la più bella notte, il più bel silenzio della mia vita. Gli opposti danno la vera pace.



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