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La "Calandrata" e la cucina marinara: la sfida dell'Mtchallenge di gennaio e un piatto che sa di mare e di bora

Da Lacucinadiqb

“Pensavo ti avessero rapita i crudisti!” esclama Pina la Gallina appena mi vede entrare in casa. “Pina! No, ho cucinato un sacco di cose buone in trasferta e non ho smesso un attimo di pensare alla sfida di questo mese!” “Eh lo so, questo mese carne. Cercherò di farmene una ragione. Del resto una sfida a colpi di minestrina col dado sarebbe poco appetibile, per voi gastrofanatici.”
“Dura lex sed lex, Pina, visto che il tema del mese è lo spezzatino e le cotture lente. E se questo dovrà essere il mio mantra, la lentezza, presenterò un piatto comune fra i pescatori triestini.”
“Volevo farti notare che la liberalizzazione della cannabis è a tutt’oggi solo una proposta ma, mi pare di capire, tu devi essere già andata oltre: carne per i pescatori?“ “Certo Pina. Ti ricordi che tempo fa avevo già parlato del Goulash Triestino, un piatto tradizionale preparato con la medesima quantità di carne e cipolle bianche? Avevo quindi bisogno di altri stimoli: questi mi sono giunti dalla “Calandraca”, un piatto dai molteplici e dubbi natali, come la reputazione dei marinai. A proposito, sai perché i marinai portavano sempre degli orecchini ad anello?” “Per non essere da meno di Keith Richards!” “Pennuti…no, per un do ut des senza tante carte bollate: visto la vita avventurosa ed il destino incerto dei naviganti, in caso di naufragio, e conseguente morte improvvisa, chiunque avesse trovato il corpo di un marinaio avrebbe dovuto comportarsi da buon cristiano, dando quindi degna sepoltura, e trattenendo gli orecchini in oro per il disturbo.”

“Bello, ecco perché ancora oggi al mercato del pesce e tra i marinanti chioggiotti si trovano tantissimi uomini con orecchini ai lobi! Io li trovo così affascinanti…quasi quasi suggerisco l’accessorio a Banderas.”
“Tieni a bada gli ormoni Pina ed ascolta la storia della Calandraca. Devi sapere che quando le navi partivano, vuoi dal porto per la pesca o vuoi dall’Arsenale per il commercio, erano attrezzate di tutto punto, compresi i viveri: acqua, vino, gallette, sarde in saor per l’indispensabile vitamina C e la carne “salada”, secca o affumicata, essendo la cambusa sprovvista di abbattitore. Ma la carne salada non si poteva succhiare come un ghiacciolo al bisogno e per nutrirsene si aguzzò l’ingegno: veniva lessata a lungo fino a farla ritornare ad una morbidezza accettabile e successivamente si cuoceva con parte del suo brodo e tante spezie da fare da intingolo, così da ottenere un piatto gustoso e soprattutto sostanzioso. Rispetto alla prima volta che fu portata in tavola la Calandraca, che poi è divenuto un piatto tradizionale sul fiumano e in tutta la costa istriana, era sicuramente diversa, tenendo conto che non erano ancora giunti dal nuovo mondo i pomodori e le patate, ingredienti fondamentali per completare il piatto.”


“Sarebbe bastato fare un giretto per la dispensa di Masterscief: hai visto che ci sono anche delle mie parenti?” “Pina, smettila!” “Era così per dire, sai, quando si parla di ingredienti d’eccezione…..” La vis polemica di Pina è parte fondante del suo carattere, inutile negarlo, e mentre tolgo dalla lessatura il pezzo di campanello ben legato, mi invita a continuare. “Si tratta quindi di un piatto con una specifica collocazione geografica anche se molteplici sembrano essere le rivendicazioni circa i natali e l’etimologia.” “Come con risi-patate-cozze, I suppose…” interviene immediatamente una Pina più sagace del solito.

“Infatti. In prima battuta si ritenne che il nome di questo piatto tipico della cucina marinara derivasse appunto da “calandrata”, “cilindrata”, ossia la carne seccata e passata sotto la “calandra”, un utensile composto da pesanti cilindri che serviva a “stendere” in fogli diverse sostanze (come la centrifuga a manovella che veniva usata ad inizio secolo per strizzare i panni e anche nelle comiche di Stanlio ed Ollio). C’è chi disse invece che l’etimologia fosse spagnola: “calandraca” è il nome che in Sudamerica identifica una pietanza preparata con un impasto di pane, uva e farina cotto poi in forno, nella pronuncia simile ad un piatto analogo di origine greca. Esistono dei documenti che ne attestano la cottura fin dalla metà del ‘200 e c’è chi sostiene a spada tratta che fu il frutto dell’ingegno della moglie di un certo Soncin di Servola, un marinaio triestino che attorno al ‘500 aveva raccontato alla consorte di un pasto così composto degustato in un porto greco.
Qualunque siano i natali di questo piatto una cosa è certa ovvero che la carne utilizzata fosse quella di montone o castrato, la più usata dai marinai dalla notte dei tempi e che la fecero conoscere anche ai veneziani. In occasione della festa della Madonna della Salute (21 novembre), con la suggestiva processione sul ponte di barche costruito sul Canal Grande, si prepara la “Castradina” un piatto succulento a base appunto di carne di castrato che veniva importata dalla Dalmazia. Questo piatto, con un estimatore in ogni porto, come i marinai del resto, era una pietanza consueta anche per la Marina austro-ungarica, fin troppo. Si narra che veniva cucinato così spesso da provocare dei veri e propri ammutinamenti nella ciurma gourmad che, evidentemente, aveva già sentito parlare di succulenti goulash e profumate Sacher.
“Wow! Che storie! Pensa come si sta rodendo dall’invidia il Sofficino!” esclama una Pina scatenata.


“Esatto Pina ma una cosa è fondamentale per la preparazione della Calandraca: mai partire in cottura con una dadolata di carne cruda; si avrebbe come risultato un goulash o uno spezzatino. E se non si riesce a trovare dal proprio fornitore la carne salada di manzo (e non vale quella di cavallo, come è accaduto a me) l’alternativa sarà quella di lessare un pezzo non pregiato di questo animale e poi di continuare unendo i restanti ingredienti.”
“Sono contenta che non ti abbiano rapito di crudisti, così ho qualcosa da raccontare al nido della fattoria. Fra un po’ sarà tutto un covare e un partorire. Ti lascio alla cottura e ci vediamo alla prossima sfida!”
Pina salta giù dal tavolo e scompare con il consueto svolazzo alla Wanda Osiris ed io mi rimetto al lavoro: del resto quando la sfida si fa dura, i duri si mettono a spignattare ;)
La Calandrata Ingredienti 800 g di carne da lesso (megatello, scapino, campanello), 3 chiodi di garofano, 2 bacche di ginepro, 1 stecca di cannella, ½ foglia di alloro, una presa di sale grosso, 1 carota, 1 gamba di sedano, 2 cipollotti, 1 spicchio d’aglio rosa in camicia, 1 bicchiere abbondante di vino bianco secco (ho utilizzato uno dei miei preferiti, il Ribolla Gialla), 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, 250 g di passata di pomodoro, 300 g di patate di Rotzo (o pasta gialla farinosa), pepe nero macinato la momento, olio evo, sale.
Procedimento Legare la carne e metterla in una pentola in ghisa (ho usato le mie Staub), unire gli aromi e la presa di sale grosso, bagnare con ½ litro d’acqua fredda, portare ad ebollizione, coprire e far sobbollire al minimo per un’ora e mezza. Abbattere o far raffreddare la carne, tagliata in dadolata regolare e mettere da parte il brodo filtrato. Nella stessa casseruola rosolare l’aglio, il concassè di sedano, carota e cipollotti e rosolare per 10’, unire la carne, far insaporire, unire il vino, far evaporare, unire prima il concentrato e poi la passata, mescolare bene e cucinare per altri 5’. Coprire con il brodo e continuare la cottura dolcissima con il tegame semicoperto per circa 30'. Unire le patate sbucciate e tagliate in dadolata e continuare la cottura per altri 45’. Togliere dal fuoco, regolare di sale e profumare con del pepe nero appena macinato e servire immediatamente. E’ più buono il giorno dopo (a sua insaputa).

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