Fra tutte le tradizioni delle festività natalizie, quella della calza della Befana, sembra la più lontana dalla nostra cultura: enormi calze piene di dolciumi e carbone sono ben distanti dalla spiritualità e dal misticismo che permeano le feste a Napoli. Eppure, un’antica usanza potrebbe far ricredere chiunque consideri la Befana una creazione del consumismo moderno.
Sappiamo tutti che il presepe napoletano non è semplicemente una rappresentazione della natività, ma una metafora, un luogo mistico in cui morte e vita cessano di essere distinte. Le statuine che mettiamo ogni natale sotto l’albero sono un luogo per gli spiriti, un modo per passare le festività insieme anche a chi abbiamo perso: ogni singolo pastore rappresenta qualcosa come i mesi dell’anno, rinascita, sangue e memoria in un mistero che i più grandi studiosi, come Roberto De Simone, analizzano da secoli. Non a caso i napoletani più superstiziosi circondano il presepe con rovi o finta paglia per non far fuoriuscire gli spiriti.
Il legame coi morti si manifesta anche nella frutta secca, le così dette “ciociole”, messe a tavola proprio perchè l’unico cibo, secondo una credenza millenaria, di cui si nutrono i morti: un modo per invitare i cari estinti a sedersi a tavola e festeggiare con i vivi. Ma cosa lega tutto questo alla famosa calza? L’Epifania, si sa, tutte le feste porta via, ma ad andarsene con lei sono anche gli spiriti che tornano al loro regno, ma non senza ringraziare chi li aveva ospitati: come regalo ai bambini di casa, i morti lasciavano le uniche cose di cui potevano disporre, frutta secca e bucce di mandarini, nei loro calzini. Parliamo di una tradizione che, a Napoli, è stata rispettata fino a metà del secolo scorso: per i genitori era un modo di sbarazzarsi degli ultimi resti di pranzi e cenoni e per i bambini era una gradita sorpresa in tempi in cui anche un guscio di noce poteva diventare un gioco meraviglioso.