Dopo le cortecce, incluse ecco dunque la questione delle carie. Sono ormai a tutti noti i meccanismi legati alla compartimentazione, la cui efficacia nel caso delle potature è, almeno indirettamente, inversamente proporzionale alle dimensioni del taglio. In effetti, il diametro della sezione legnosa tagliata offre un'indicazione di massima del rapporto tra tessuti metabolicamente attivi (alburno) e tessuti metabolicamente non più attivi (diciamo durame, almeno per le specie che ne sono provviste). Questo rapporto, lasciando da parte la "barriera", (o "muro" 4, se preferite), segna infatti la differenza in termini di efficacia tra l'azione dei "muri" 1, 2 e 3; quindi più il taglio è grosso, maggiore è la probabilità che si sviluppi un esteso processo degenerativo. Sappiamo poi che, in ogni caso, il "muro" meno efficace è il n°1 (sviluppo preferenziale della degenerazione in senso longitudinale all'asse legnoso), grossolanamente collocabile al livello del sistema conduttore xilematico (legno). Per ovviare a questo "tallone di Achille", gli alberi hanno a disposizione alcuni "trucchi" di natura anatomica. Il più noto di questi "trucchi" è il collare della ramificazione che, in pratica, impedisce una comunicazione diretta e lineare tra il sistema conduttore di due rami tra loro gerarchicamente organizzati in senso morfofisiologico, ad esempio una branca (asse dominato) inserita su un tronco (asse dominante). Su questo espediente si basa, ad esempio, la relativa serenità che prova il potatore nell'esecuzione del taglio di ritorno. Un altro "trucco" è quello che riguarda l'inserzione dei getti avventizi (succhioni o ricacci, che sono morfofisiologicamente tronchi) che, proprio in quanto avventizi, non hanno una connessione diretta con il sistema conduttore dell'asse che li ha prodotti. Su questo espediente si basa, invece, la serenità del ceduatore di boschi che ha la certezza di ottenere polloni integri pur se a contatto di una vecchia ceppaia totalmente cariata. Quando facciamo un capitozzo, tuttavia, eseguiamo sempre il taglio di un tronco in senso morfofisiologico; i tronchi non formano mai un collare basale e sono sempre in continuità diretta con colonne cambiali sottostanti (nel caso di un albero ontogeneticamente giovane, ovviamente, la colonna cambiale coincide con il tronco primario). In pratica, dunque, l'eventuale sviluppo di un'infezione su questi tagli ha una elevata potenzialità e velocità di propagazione in senso longitudinale, in cui si fa assai evidente la relazione con la quantità di legno non più metabolicamente attivo. Dal punto di vista evolutivo, questo ci insegna che i tronchi sia primari che secondari, rappresentano strutture anatomiche con carattere permanente cui gli alberi non sono disposti a "rinunciare".
Dopo le cortecce, incluse ecco dunque la questione delle carie. Sono ormai a tutti noti i meccanismi legati alla compartimentazione, la cui efficacia nel caso delle potature è, almeno indirettamente, inversamente proporzionale alle dimensioni del taglio. In effetti, il diametro della sezione legnosa tagliata offre un'indicazione di massima del rapporto tra tessuti metabolicamente attivi (alburno) e tessuti metabolicamente non più attivi (diciamo durame, almeno per le specie che ne sono provviste). Questo rapporto, lasciando da parte la "barriera", (o "muro" 4, se preferite), segna infatti la differenza in termini di efficacia tra l'azione dei "muri" 1, 2 e 3; quindi più il taglio è grosso, maggiore è la probabilità che si sviluppi un esteso processo degenerativo. Sappiamo poi che, in ogni caso, il "muro" meno efficace è il n°1 (sviluppo preferenziale della degenerazione in senso longitudinale all'asse legnoso), grossolanamente collocabile al livello del sistema conduttore xilematico (legno). Per ovviare a questo "tallone di Achille", gli alberi hanno a disposizione alcuni "trucchi" di natura anatomica. Il più noto di questi "trucchi" è il collare della ramificazione che, in pratica, impedisce una comunicazione diretta e lineare tra il sistema conduttore di due rami tra loro gerarchicamente organizzati in senso morfofisiologico, ad esempio una branca (asse dominato) inserita su un tronco (asse dominante). Su questo espediente si basa, ad esempio, la relativa serenità che prova il potatore nell'esecuzione del taglio di ritorno. Un altro "trucco" è quello che riguarda l'inserzione dei getti avventizi (succhioni o ricacci, che sono morfofisiologicamente tronchi) che, proprio in quanto avventizi, non hanno una connessione diretta con il sistema conduttore dell'asse che li ha prodotti. Su questo espediente si basa, invece, la serenità del ceduatore di boschi che ha la certezza di ottenere polloni integri pur se a contatto di una vecchia ceppaia totalmente cariata. Quando facciamo un capitozzo, tuttavia, eseguiamo sempre il taglio di un tronco in senso morfofisiologico; i tronchi non formano mai un collare basale e sono sempre in continuità diretta con colonne cambiali sottostanti (nel caso di un albero ontogeneticamente giovane, ovviamente, la colonna cambiale coincide con il tronco primario). In pratica, dunque, l'eventuale sviluppo di un'infezione su questi tagli ha una elevata potenzialità e velocità di propagazione in senso longitudinale, in cui si fa assai evidente la relazione con la quantità di legno non più metabolicamente attivo. Dal punto di vista evolutivo, questo ci insegna che i tronchi sia primari che secondari, rappresentano strutture anatomiche con carattere permanente cui gli alberi non sono disposti a "rinunciare".