Perché un horror? Immaginate di essere un giovanissimo regista, con qualche cortometraggio all’attivo, conscio del proprio talento e con il sogno di poter, prima o poi, esordire su grande schermo. Perché proprio con un horror, il parente povero del cinema, quello a cui nessuna persona seria si sente di dare un po’ di credito? Domanda oziosa, dalla risposta abbastanza scontata: l’horror è il genere che, più degli altri, permette di scatenare la propria inventiva a costi contenuti. 350.000 dollari di budget, un gruppo di amici e un produttore intelligente. Era il 1979, nessuno immaginava di cambiare la storia del cinema per sempre. Si voleva solo girare un film che avrebbe coperto i costi, per poi sperare di realizzarne un altro. Iniziare una carriera insomma. Raimi e Bruce Campbell, compagni di scuola, regista uno, attore l’altro, ma solo perché piaceva alle ragazze. Una macchina da presa montata su una tavola con due maniglie, tenuta rasoterra e via a correre nei boschi. Due anni di lavorazione tra riprese e montaggio, con gli attori che andavano e venivano, e che bisognava sostituire con controfigure, ché il set venne a più riprese abbandonato dai protagonisti, tranne loro due, Raimi e Campbell, pazzi incoscienti ricoperti di sangue finto dalla testa ai piedi. Chi poteva prevedere che dal 15 ottobre del 1981, il volto del cinema dell’orrore non sarebbe stato più lo stesso?
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Sam Raimi e Rob Tapert, regista e produttore (quello intelligente), ma anche mani, piedi, mostri, i cosiddetti fake shemps (gli indemoniati fittizi truccati come gli attori protagonisti), di Evil Dead, da noi noto col titolo a falce, La Casa, si possono scorgere nei due redneck che salutano i cinque ragazzi a bordo della Oldsmobile Delta 88 del ’73, color giallo chiaro, diretta verso lo chalet. S’erano tagliati i capelli a vicenda, per sembrare più campagnoli.
Insieme a Bruce e Ellen Sandweiss avevano girato dei corti, in Super 8, investendo di solito cinquecento, settecento dollari e racimolando almeno il doppio. Eppure, capitò che uno di questi filmini, non sappiamo quale, ne ricavasse ben diecimila, di dollari e che inducesse sogni di gloria.
Così si sceglie la location, una casa sperduta tra le montagne provvista di strada sterrata (una fortuna, altrimenti avrebbero dovuto scavarla loro e i soldi sarebbero finiti molto prima), si mettono annunci nei campus universitari, si fanno dei casting ai quali, con sorpresa, si presentano attrici brave e carine. E tuttavia, c’era diffidenza. Il cinema era tutto fuorché arte, anzi, spesso occasione di efferatezze e doppi giochi. Si andava a girare un horror la cui sceneggiatura constava di cinquanta pagine appena, delle quali dodici di introduzione e le restanti di squartamenti ed efferatezze assortite. Per cui, le ragazze, Betsy Baker (Linda) e Theresa Tilly (Shelly), vennero accompagnate dai fidanzati, agguerriti e attenti che non si finisse, parole di Sam Raimi, per girare uno snuff o un porno.
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Raimi non fa parte della generazione dei Carpenter, Hooper, Craven, Romero. Lui è più giovane, ha poco interesse nei sottotesti, nelle metafore e nell’ horror politico. Cinema ottovolante, intrattenimento scanzonato e, in cima a tutto, la macchina da presa. “It’s about the camera”, così dice lo stesso Raimi a proposito di Evil Dead e non potrebbe essere altrimenti, dato che ad appena vent’anni era già in grado di mandare a scuola la metà dei registi contemporanei per tecnica e visione personale della macchina cinema. Il motivo per cui, ancora oggi, rivedere La Casa è un’esperienza unica e irripetibile, che nemmeno il passaggio dei decenni, o l’invecchiamento degli effetti speciali mettono in discussione, è l’estetica perfetta, la classe cristallina della regia di Raimi, qualcosa da adorare come una divinità pagana, perché a quell’età, una consapevolezza e un controllo assoluto della propria creatività sono un miracolo sceso in terra.
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Lo chalet era privo di acqua corrente, gas, il camino dovette essere costruito dal carpentiere di produzione (insieme al dondolo sotto al portico), che lo mise insieme con materiale di recupero, assolvendo alla duplice funzione di costruire una scenografia credibile, in stanze che erano loculi, tanto erano piccole, nonostante il 16mm dia una profondità di campo spaventosa, e di riscaldare la troupe intirizzita a fine giornata. Giornate di dodici-sedici ore, a cavallo tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno.
La botola, invece, la costruì Don Campbell, fratello di Bruce, che si dilettava anche lui col fai da te. Lo chalet, di fatto, non ha mai avuto una cantina. Si dovette scavare una fossa di due metri di profondità, metterci una scala fittizia, in modo che prima Richard DeManincor (Scotty), poi Bruce Campbell (Ash) potessero scendervi. Le scene in cantina, il ritrovamento del fucile, del pugnale e del poster di Hills Have Eyes, messo lì, strappato, per sfottere Wes Craven (ché lui faceva pop-horror, mentre loro horror vero e proprio) vennero girate mesi dopo aver lasciato lo chalet, nel garage di Rob Tapert.
Un film, La Casa, costruito come un mosaico, per fare soldi colpendo lo spettatore, facendolo sobbalzare, disgustare, alzarsi dalla sedia e abbandonare il cinema, dopo la scena dello stupro arboreo, oppure restare seduto e godersi il bloodshed, la carneficina della durata di un’ora.
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Raimi conosce i codici e i trucchi del mestiere, conosce l’horror e sfrutta tutti i mezzi a disposizione del genere: non c’è niente di nuovo, a livello contenutistico, in Evil Dead. La rivoluzione non sta nel cosa, ma nel come, nella trasformazione dell’horror in slapstick, senza però scadere nella parodia e mantenendo invariato il fattore paura. Detta così sembra una cosa semplice, per quanto ormai ci siamo abituati. Nel 1979, non esisteva niente del genere. Non esisteva neanche lo splatter come noi lo intendiamo, che anche quello se lo è inventato Raimi e lo stesso body horror, con tutte le sue implicazioni più seriose, non sarebbe mai nato, se Evil Dead non avesse mostrato al mondo quello che si può fare a un corpo umano, deformandolo fino a renderlo irriconoscibile, riducendolo a brandelli, rendendo i personaggi delle figure da cartone animato, più simili a Willy il Coyote che ai classici adolescenti alle prese con l’ assassino stalker di turno. Non c’è nessuna pretesa di realismo ne La Casa, il tutto ruota intorno alle evoluzioni funamboliche della 16mm di Raimi che striscia sul terreno, entra dalle porte e dalle finestre, vola sulla testa di Ash e non concede un solo istante di tregua ai nostri occhi. Eppure l’ effetto non è quello di un fastidioso accumulo di virtuosismi, come spesso capita al lavoro di un esordiente che voglia sfoggiare le sue capacità. Al contrario, abbiamo l’ impressione che Raimi sappia fare ancora più di quello che ci mostra, ma che si sia contenuto per lasciare spazio a una storia che sarà anche banale e raccontata un milione di volte, ma che proprio attraverso la regia assume nuove sfumature e aspetti inediti. Pensiamo solo alla scena degli arbusti stupratori: la sceneggiatura originale si limitava a dire che Cheryl (Ellen Sandweiss) usciva di casa e gli alberi la attaccavano. Tutto il resto è stato costruito sul set e in sala di montaggio, improvvisato sul momento. Il risultato è una delle sequenze più divertenti, estreme e al tempo stesso spaventose mai realizzate. In questa commistione di risata e orrore sta l’essenza del film, nella comprensione di Raimi di quanto il lato grottesco e assurdo dell’esistenza abbia una valenza comica, e di come in quella comicità si annidi la paura.
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Bruce Campbell non è Ash. È vero, anzi, che sia tutto il contrario del personaggio che abbiamo imparato ad amare. E qui, per circa venti minuti, è proprio lui davanti alla cinepresa, impacciato, timido, più incline al romanticismo che a combattere i demoni a fucilate. Raimi lo sfotte dicendo che, quando doveva mostrare tensione, gli veniva la faccia da ubriaco. E tanto basta: sono amici e quindi hanno il diritto di sfottersi a vicenda. Fosse stato per Bruce, La Casa sarebbe stata baci e languide carezze, e fanciulle trasportate in braccio verso la camera da letto. Ma poi arrivano i demoni, il film si scalda e lo schermo, seguendo il consiglio del proprietario di alcune sale cinematografiche di Chicago dove avrebbe dovuto essere proiettato, previ accordi con Raimi e Tapert, viene inondato di sangue: un buon horror, che piacerà alla gente.
Inizi degli anni ottanta, effetti speciali e trucco artigianali, lenti bianche a coprire gli occhi, che potevano star su per un quarto d’ora appena, con Bruce che girava sul set improvvisandosi oftalmologo; il cinema, soprattutto quello horror, dai drive-in stava per approdare nell’home-video, cosa che, nessuno lo sapeva ancora, avrebbe sancito il successo della (futura) trilogia.
Bello e impagabile lavorare in questo modo, con incoscienza, girando solo un film, senza pretese di fare arte, contando sull’effetto shock e null’altro, mettendo a frutto il mestiere e le schifezze e i guizzi registici, mettendo vere cartucce nel fucile di Bruce e dicendogli di sparare alla finestra, verso Sam e il cameraman… tanto che importava?
All’epoca nulla, forse. Ora non lo farebbero mai più. Si invecchia e si prende coscienza di aver rischiato tanto, forse troppo. E per che cosa? Forse qualcosa di unico nel suo genere.
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A differenza del seguito, quello sì parodistico, il divertimento e l’atmosfera da casa degli orrori di un luna park di provincia non tolgono nulla alla natura spaventosa del film, che terrorizzò intere platee e che in alcuni paesi, come in Germania, è stato rilasciato in versione non censurata solo in tempi molto recenti. La violenza, sebbene mitigata dalla leggerezza e dall’ironia sempre presente, è davvero impressionante, come del resto la scelta della location, quei boschi bui e offuscati dalla nebbia, le inquadrature prolungate sulla luna nascosta da nuvoloni neri, le famosissime soggettive dei demoni che spiano i protagonisti dalle finestre della capanna, la canzoncina cantata da Linda posseduta, o anche la prima, storica trasformazione di una delle ragazze durante il gioco delle carte, sono tutti elementi che rendono Evil Dead un vero film dell’orrore, e non una horror comedy come se ne vedono tante oggi. È una distinzione fondamentale: non si tratta di prendersi gioco del cinema horror, ma di destrutturarlo e rinnovarlo. E sì, rinnovamento e destrutturazione sono entrambi “about the camera”, perché da quel 15 ottobre del 1981, è stato il linguaggio del cinema dell’orrore a cambiare per sempre e con esso la nostra percezione. Lo ha fatto un ventenne, con un gruppo di amici e una macchina da presa montata su una tavola con le maniglie. E tutti a correre nei boschi.
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Sam Raimi si improvvisava Spiderman e strisciava sul soffitto per inquadrare Bruce. Il fratello Ted, all’epoca quindicenne, camminava sul set, prestando le sue gambe al personaggio Scotty (l’attore s’era volatilizzato da un pezzo, insieme ai soldi), oppure era infilato in qualche intercapedine tra le assi del pavimento e il terreno a far spuntare le mani con cui afferrare Ash, l’ultimo da prendere.
Talmente poveri erano, ricorda Rob Tapert, da non riuscire a mettere insieme, per la scena del pranzo dopo l’arrivo alla baita, nemmeno un pasto decente e tanto da dover arrivare a creare la nebbia col fumo delle sigarette (ma su questo credo proprio abbia scherzato).
Il registratore attraverso cui parla lo scienziato è del nonno di Bruce, lo usavano insieme a Sam per rimorchiare le ragazze. Come, non ci è dato sapere.
Così come non sappiamo dove, sempre a dire di Raimi, sia stata seppellita, a tre metri di profondità, una capsula del tempo, riempita con cimeli di scena, nei pressi dello chalet, che adesso non esiste più. Il segreto per fare il cinema bello. Quello svelto e incosciente. Quello da vedere e raccontare, come abbiamo tentato di fare oggi, con quest’articolo.
Hell & Lucy
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