Per il giallo provo un’attrazione particolare. Quando mi capita di vedere qualcosa di giallo i miei sensi s’eccitano; si scatena una ridda di emozioni. Di solito si dice che sia il rosso a provocare questo effetto; a me, invece, capita con il giallo. Il giallo nella vita lo associo alla felicità, alla luce, al benessere materiale e spirituale, alle estati, al sole, al caldo, ai campi di grano e all'estasi. Se ripenso a qualche episodio dell’infanzia, i miei ricordi si tingono come la scorza del limone, o come la pelle di quelle grosse e lucide susine che mi divertivo a rubare negli orti. Mi chiedo se sia la luce che il giallo riesce a imprigionare nei suoi pigmenti a suscitare in me questo effetto. I miei ricordi d’infanzia sono circonfusi di una luce che vorrei vedere nelle cose che dipingo. Ma quando alla fine viene fuori un’altra luce, allora smetto. Sarà per questo che ultimamente dipingo poco. Per consolarmi o confortarmi dico a me stesso che si tratta di una momentanea mancanza d’ispirazione, ma so benissimo che non è così. Quando vivo queste situazioni, provo a distrarmi con lunghe camminate, e giro sempre con in mano il mio bloc-notes di carta ruvida e la matita nel taschino. Non è per vanità, ma ho sempre bisogno di questi accessori per essere tranquillo. E così faccio lunghe camminate in campagna. L’altro giorno sono arrivato davanti a un campo di grano e mi sono fermato ad osservarlo. Tutta quella immensa distesa gialla mi metteva addosso un senso di pace. Soffiava una brezza leggera e le spighe si piegavano dolcemente alla carezza del vento. Ho avuto impressione che per un attimo quel campo mi rimandasse indietro la trama dei miei ricordi. Poi sono stato attratto da una casa diroccata non molto distante, costruita su un lieve pendio. Il tetto era completamente crollato, in piedi erano rimaste soltanto le quattro mura. La pioggia, il sole e gli altri elementi naturali avevano finito con lo scrostare le pareti e mettere a nudo la pietra. A vederla a quella distanza appariva soltanto una chiazza grigia che si stagliava su uno sfondo azzurro. La osservava con le spalle rivolte al sole. L’elemento che più m’attrasse fu quel sottile riflesso di luce gialla che la casa proiettava. Mi chiedevo, come avrei fatto a riportare sulla tela quella macchia grigio/gialla. Mi sono seduto su un masso e ho cominciato a tracciare uno schizzo. Riportavo sul foglio le superficie rettangolari. Ad un certo punto, ho smesso. Avevo cominciato ad abbozzare le linee prospettiche del campo, della collina e della casa; lo sfondo l’avevo lasciato completamente in bianco. Le tre masse che riempivano il foglio mi sembravano slegate tra loro. Non riuscivo a vedere un nesso che potesse unirle. Ho rigirato più volte il foglio su stesso, ma ogni massa aveva una vita a sé. La piccola irregolarità del terreno sulla quale si elevavano le rovine della casa era contigua al campo di grano, ma non riuscivo a vedere come quella protuberanza si fosse originata dal movimento della terra. Le linee tracciate sul foglio non avevano un andamento organico: arrivate a un certo punto si spezzavano e riprendevano con un altro ritmo; allo stesso modo la linea che separava lo sfondo del cielo e il resto del paesaggio mi appariva arbitraria, come se non avesse alcuna relazione tra il terreno e tutto il resto. Cosicché mi rendevo conto di questo fosse banale voler riportare su un supporto bidimensionale una realtà che aveva molteplici dimensioni. Pensavo che ogni minima variazione subita da quella costruzione nel corso del tempo non fosse dovuto a un movimento accidentale, ma alle conseguenze concomitanti prodotte da movimenti tellurici e cosmici. Non che un disegno non riesca ad esprimere le forze latenti che si sprigionano dalle masse, ma è ch’esse vengano rappresentate come qualcosa di autonomo; mentre a me interessava individuare i punti di torsione, cioè la “sprezzatura” o il momento di raccordo in cui il respiro dell’una finisce per riprendere in quello dell’altra. Non cercavo un’impressione fugace, ma una sensazione durevole. Ad esempio, osservava una parte del muro in cui la massa grigia s’addensava e la luce gialla declinava spostandosi verso la mia destra, eppure non riuscivo ad abbozzare una chiazza grigia che mi desse un senso di continuità. In pratica era come se non riuscissi a trovare le linee che collegassero le masse tra loro. Così come non riuscivo a trovare i nessi che unissero la mia attrazione per il giallo, la mia infanzia e la mia attività di pittore. In fondo, anche queste mi sembravano slegate, come se non avessero alcun rapporto significativo. Mentre riflettevo su questa mancanza mi vennero in mente queste equivalenze: il campo di grano rappresentava la mia infanzia, la casa diroccata la mia opera e lo sfondo azzurro del cielo la mia attrazione per il colore. Ecco, mi dissi, prova a trovare i loro punti di raccordo! Ho chiuso gli occhi e con la mente mi sono concentrato sulle impressioni che il paesaggio mi aveva lasciato. A quel punto però mi sono visto comparire la strada sterrata e il masso dove stavo accovacciato il recinto che delimitava il campo di grano. Tutto il resto era come se fosse svanito nella mia mente. Dopo aver fatto altri tentativi di disegnare quel paesaggio, alla fine mi sono stancato e ho abbandonato l’impresa. La luce del sole stava ormai tramontando. Mi sono alzato, stanco di stare seduto su quel masso, e ho ripreso la via del ritorno. Ho dato un’ultima occhiata a quella casa diroccata, che cominciava a tingersi di arancione. In fondo, ho pensato, nella vita di ciascuno rimane sempre qualcosa di non concluso, e se torno anche domani la ritrovò ancora in piedi.