Il libro è stato inserito nella collana Overlook (dall’inglese, “guardare dall’alto, sovrastare) e non a caso: si tratta di uno sguardo d’insieme su una vita che è stata interessante ma anche complicata. Molti storcono il naso quando si parla di Carlo Verdone: la critica più altezzosa lo ha sempre un po’ snobbato ritenendolo commerciale e, forse, in qualche momento banale. Ma io non condivido: non mi sembra troppo adagiato sugli stereotipi sociali, pur avendone indiscutibilmente sfruttato gli archetipi più evidenti. A me è sempre apparso come un uomo di cultura e di talento, oltre che sensibile. Qualcuno continuerà a dissentire e, in fondo, vero che è permeato di quella “romanità” cosi densa da potersi toccare, così consistente al limite del fastidio. Ma questa è tutt’altra faccenda, che poco ha a che fare col talento dell’artista.
Carlo Verdone è regista, ma anche sceneggiatore e, dunque, frequenta da moltissimo tempo la scrittura. Lo dimostra bene con questo libro intenso e accattivante, col quale ci fa capire che le case non sono tutte uguali. Ci sono i palazzoni anonimi, quelli troppo popolosi, quelli eleganti e pieni di gente ricca e capricciosa, le case che affacciano sul verde e quelle dalle cui finestre si vede solo un po’ di cortile. Ancora, ci sono quelle che guardano verso ampi panorami e quelle che danno sui palazzi di fronte. Case che si aprono sul mondo delle altre case, un universo intimo e personale attraverso il quale capiamo che quelle case, e quelle vite, non sono poi tanto differenti dalle nostre. Ma la casa è soprattutto un luogo della mente e dell’anima. È uno spazio in cui muoversi in sintonia con noi e i con i nostri coinquilini. Esiste a proposito pure una psicologia dell’abitare. Oliver Marc, architetto francese che da tempo si occupa anche di psicoanalisi, sostiene che “l’architettura era forse la prima delle espressioni artistiche dell’uomo e la casa era la più perfetta espressione del sé” e che “costruire la propria casa significa creare un luogo di pace, di calma e di sicurezza, dove ci si può ritirare dal mondo e sentire battere il proprio cuore; significa creare un luogo dove non si rischia l’aggressione, un luogo di cui ci sia l’anima. Oltrepassata la porta, assicuratisi che sia ben chiusa, è dentro di sé che si entra”. Questa definizione ci riporta a quello che Verdone ha voluto raccontare nel libro, ovvero che la sua casa è stata proprio luogo di accoglienza, di crescita e di protezione. Non si affida al racconto di facili aneddoti e notiziole curiose o, almeno, non solo, ma descrive una sorta di fotogrammi in sequenza che evocano ricordi e suggestioni (bella l’immagine di una casa tranquilla all’ombra dei platani), sprazzi di malinconia come di risate, fragilità, difetti, delicatezza, mille speranze.
“Quel giorno avevo messo una giacca blu, una camicia bianca, un pantalone grigio e una bella cravatta rosso scuro. Era un gesto solenne che sentivo di dover fare. Volevo essere elegante perché stavo per salutare l’ultima volta un luogo che meritava un profondo rispetto. Non ricordo esattamente la data, ma era la metà di aprile del duemiladieci. Forse ho rimosso quel numero perché mai avrei voluto che arrivasse quel momento fatidico. Il giorno in cui avrei dovuto lasciare per sempre la vecchia casa paterna. Decisi di uscire alle tre e mezzo, in largo anticipo per giungere almeno un’ora prima del previsto appuntamento con l’addetto del Vicariato. Giusto pochi minuti per formalizzare la riconsegna dell’immobile. Con il semplice ritiro di una chiave quel freddo emissario avrebbe sottratto per sempre la dimora dei più bei ricordi della mia vita.Ero terribilmente triste e l’atmosfera di quel pomeriggio non aiutava a migliorare il mio stato d’animo. Quei giorni la primavera sembrava ancora lontana e i colori erano simili all’autunno. Il cielo era un tappeto plumbeo e cadeva una pioggia leggera a vento. Ero quasi arrivato. Il cuore mi batteva forte. I platani che costeggiavano il Lungotevere sembravano rifiutare la fioritura.” Il primo passaggio dell’incipit è davvero evocativo anche se (per forza di cose) descrittivo.
Oggi Carlo abita a Monteverde, quartiere storico della capitale e, per un gioco del destino, da casa sua vede da lontano la vecchia casa sotto i portici, come un grande amore che non può – ma non deve – essere dimenticato. La casa sotto i portici è, in definitiva, un bel libro (curato da Fabio Maiello) corredato da foto di famiglia, una sorta di “Amarcord” surreale e divertente il cui “character” principale è proprio la casa alla quale Verdone sarà per sempre legato da un “profondo erobusto abbraccio”.
Carlo Verdone che si diploma nel 1974 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, sotto la direzione di Roberto Rossellini. Carlo Verdone che, nel 1975, si laurea in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma con una tesi sull’influenza della letteratura italiana sul cinema muto. Carlo Verdone che si incontra con Sergio Leone e dà vita al primo grande successo, Un sacco bello, del 1980 (anno fortunatissimo che vede l’affermazione di altri geni, come Massimo Troisi e Roberto Benigni). Tutto questo La casa sopra i portici l’ha visto, restando accanto al suo abitante, come una madre silenziosa ma presente. Verdone ha definito questo libro il suo film più importante e il racconto rimane, comunque, l’affresco sincero ed elegiaco della vita di un uomo attento e disincantato, capace di un’analisi dei nostri tempi lucida e senza fronzoli. Di recente il regista ha criticato l’ultimo film di Woody Allen, To Rome whith love, definendolo un ritratto da cartolina da tabaccai e non l’affresco sincero di una metropoli come Roma. Woody Allen è da sempre uno dei miei registi preferiti, per la capacità di analisi dei sentimenti e delle umane azioni, ma questa volta sono d’accordo con Verdone. Coraggioso, spericolato, fuori dagli schemi, dai luoghi comuni forzati e dalle opinioni di massa. Bravo Carlo, sono con te.
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