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La categorizzazione sociale come strategia di sopravvivenza.

Da Roberto Di Molfetta @robertodimo

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 Da dove ha origine il bisogno dell’uomo di ordinare il mondo?

Sin dagli albori, l’esistenza degli esseri umani aveva alla base una forma di organizzazione, seppur limitata. Nelle civiltà pre-moderne, attraverso la classica divisione del lavoro, l’uomo e la donna avevano compiti completamente differenti da svolgere. La donna si occupava dell’accudimento della famiglia e l’uomo di procurare i mezzi per il sostentamento della famiglia stessa. Questo modello di organizzazione sociale si è tramandato fino ai giorni nostri. Tale modello classico di divisione del lavoro e dei ruoli familiari, non risulta essere obsoleto, in quanto ancora oggi esso è radicato nella cultura delle società occidentali sotto forma di convenzione sociale.

La divisione del lavoro, è solo una delle tante forme di semplificazione della realtà sociale. Questo modello è stato adottato  anche nelle grandi fabbriche, con l’applicazione del modello Taylorista, con la  produzione ottenuta attraverso vari passaggi della catena di montaggio.

Ecco, la catena di montaggio non rappresenta solo un modello produttivo, ma risulta essere la metafora della società moderna. Una grande fabbrica in cui gli operai (individui) svolgono funzioni differenti  e specializzate.

Questo tipo di differenziazione segmentaria della società, mostra il bisogno percepito dagli individui  di ridurre la complessità sociale, attraverso schemi e categorie specifiche. 

Questa pratica di semplificazione sociale della realtà, agisce non solo a livello materiale, ma anche  a livello simbolo e quindi cognitivo. La mente umana si trasforma in un grande bagaglio, in cui in ogni scompartimento inseriamo determinati elementi, attuando una selezione sociale.

La pratica della selettività produce rassicurazione, spiana la strada sociale, il cui fine ultimo è quello di riuscire ad individuare ciò che è familiare e ciò che non lo è.

Una pratica che sembra avere alcuni tratti in comune con il funzionalismo di Herbert Spencer, secondo il quale la società funziona come un organismo vivente, in cui al suo interno si trovano specifici organi che svolgono funzioni determinate. In entrambi i casi, nel processo della categorizzazione sociale e in quello del funzionalismo, manca il carattere del disordine, tutto è al proprio posto, tutto è in equilibrio.

Allora, perché le componente conflittuale e del disordine, sono ancora presenti?

La categorizzazione non ha prodotto i risultati sperati?

La selezione e la divisione in categorie, avviene attraverso delle percezioni cognitive e in quanto tali possono verificarsi errori.

Il soggetto  numero  1 attribuisce determinate caratteristiche al soggetto A incorporandolo, di conseguenza nella categoria ALFA. Il soggetto numero 2 attribuisce differenti caratteristiche al soggetto A incorporandolo nella categoria BETA.

I punti su cui bisogna riflettere sono due:

chi definisce le caratteristiche e chi stabilisce le categorie?

Si tratta di un processo soggettivo e in quanto tale si forma in maniera differente da individuo a individuo. E’ palese quindi la presenza di conflitto, disordine e disparità di percezione del reale.

Come abbiamo visto, questo bisogno non si limita alla vita pratica, ma coinvolge anche quella che potremmo definire come l’organizzazione mentale degli individui.

Così, questa forma di etichettamento esteso, questo labeling mentale, trasforma la realtà sociale in uno scaffale di legno, una libreria in cui ogni pezzo di realtà si trasforma in un libro da inserire nello scompartimento corrispondente.

Così, può capitare di definire un libro noioso, senza mai averlo letto.

Quali sono quindi i limiti della categorizzazione?

Essa presenta un’ambivalenza di fondo, se da un lato permette di ridurre la complessità sociale, dall’ altro costruisce schemi pericolosi per la comprensione della realtà sociale.

Forme estremizzate di categorizzazione, possono infatti trasformarsi in schemi mentali che danno vita a stereotipi.

Questo processo influenza e condiziona le relazioni sociali.

L’insicurezza, la fragilità, il caotico scorrere della vita, fanno emergere nell’uomo il bisogno estremo di ancoraggio e rassicurazione. I soggetti tendono a relazionarsi solamente con coloro che possiedono determinate caratteristiche, o con coloro che fanno parte della propria categoria di appartenenza.

Così, come bambini incontentabili e perennemente insoddisfatti, selezioniamo le persone, peschiamo i pesci che ci piacciono di più, il gusto di gelato che ci fa impazzire.

La vetrina sociale si riduce sempre più in quel supermercato tanto variegato quanto pericoloso. La ricerca del familiare prevale in un mondo estremamente pluralista, in un mondo eccessivamente caotico, in cui per sopravvivere, tendiamo a scegliere la strada che abbiamo percorso sin da bambini, consapevoli che dall’altra parte ci sia una strada in cui la vista è paradisiaca.

Bauman scrive:  “La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida.”

Osare, andare oltre, agire senza pregiudizio alcuno. Non aver paura del non familiare, non aver timore dell’ignoto. L’ignoto è la scoperta, l’imprevisto che non si può gestire, l’eccezione che non si può categorizzare, la scoperta che ci può arricchire.

E’ così che bisognerebbe vivere.


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