La Catena del Valore e le Implicazioni Sociali

Creato il 09 febbraio 2011 da Pedroelrey

Il vantaggio competitivo dipende dalla capacità di capire non soltanto la catena del valore di un’impresa, ma anche il modo in cui l’impresa si inquadra nel sistema del valore nel suo complesso, scriveva Michael Porter nel lontano 1985. Ogni azienda è un insieme di attività che vengono svolte per progettare, produrre, vendere, consegnare e assistere i suoi prodotti. La catena del valore e il modo in cui l’azienda svolge le singole attività sono un riflesso della sua storia, della strategia e del modo in cui la mette in pratica, delle specificità economiche che sottostanno alle attività stesse.

Nei 26 anni trascorsi da quando il geniale innovatore del management dava questi ammaestramenti, i responsabili aziendali di tutto il mondo hanno dovuto affrontare una rivoluzione competitiva, che ha configurato nuovi modelli di business, un’invasione tecnologica, che ha cambiato stili di vita e di reazione delle persone dentro e fuori il mondo del lavoro, una crisi finanziaria, che ha colpito duramente l’economia e la società dei paesi, che orgogliosamente avevano disceso le valli del liberismo.

Le specificità economiche del valore per l’azionista e dello sviluppo galoppante dei mercati non sono più prioritari, i modi per dirigere con successo hanno cambiato i benchmark di riferimento.

Le aziende devono riconquistare la fiducia di tutti gli stakeholder, clienti, investitori, lavoratori, cittadini, scesa ai livelli più bassi, come rileva anche il 2011 Edelman trust barometer.

Michael Porter e Mark Kramer hanno scritto in reazione a questa crisi globale l’articolo «The big idea: creating shared value», apparso nell’ultimo numero dell’Harvard Business Review, in cui affermano la necessità d’adottare un nuovo modello manageriale, in rottura con la massimizzazione del valore per l’azionista.

Nell’articolo ricordano che il sistema capitalistico è sotto scacco, perché negli anni recenti lo sviluppo del business è diventato una delle maggiori cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. Le aziende hanno ormai l’immagine di organismi che prosperano a spese della comunità.

Il fallimento del modello manageriale passato può essere superato solo con un modello di creazione del valore condiviso, che consiste nello sviluppare vantaggio economico e sociale insieme. E’ l’unica prospettiva possibile per fare uscire dal circolo vizioso più risultato economico, meno socialità, tuttora in atto nei molti tentativi di ripresa.

Secondo gli autori, le aziende possono riprendersi con un avvenire favorevole solo ripensando ai prodotti e ai mercati su cui commerciano, in modo di rispondere efficacemente ai bisogni della società, in materia di salute, di alimentazione, di aiuto alla popolazione che invecchia, di miglioramento dell’habitat e di rispetto dell’ambiente.

Se questo riguarda la responsabilità sociale, attuata con comportamenti adeguati e coerenti, il modello della creazione del valore per l’azionista va completamente ripensato. Società ed economia interagiscono e le possibilità d’esistenza e di sviluppo aziendale crescono se il management ne tiene conto.
Ecco allora, l’importanza per l’impresa dei modi d’utilizzo delle risorse economiche, materiali e umane. Bisogna operare per lo sviluppo di poli di competitività, che sostengano l’attività di organizzazioni stabilite in una stessa regione e fanno prosperare le comunità locali. Un certo numero di aziende già lo fanno e le politiche di responsabilità sociale, attuate sistematicamente da esse, hanno già contribuito a cambiare il modello di business obsoleto a vantaggio di uno più lungimirante di creazione del valore economico e sociale.

Gli autori citano i casi di General Electric, Google, IBM, Intel, Johnson&Johnson, Nestlé, Unilever e Wal-Mart, come esempi di trasformazione efficace, che ha soddisfatto insieme le necessità umane, migliorato l’efficienza, creato occupazione e sviluppato benessere.

Queste aziende testimoniano la possibilità del cambiamento.

Come al solito, gli scritti di Porter affascinano, ma qualche dubbio rimane sulla disponibilità dei manager, venuti fuori per quello che sono, proprio con la grande recessione, a realizzare la svolta e sulla possibilità delle imprese a metterla in atto senza che i costi sopraffacciano il risultato economico, la produttività ne risenta, la competitività s’indebolisca.

Un capitalismo, come quello che conosciamo, non cambia senza forti ragioni di mercato, di governo, di leggi. Né è detto che l’attività sociale migliori i rapporti di fiducia e influenzi positivamente la società.

Ma l’articolo cambia radicalmente il tradizionale approccio di Porter e della sua scuola alla strategia e alla gestione dell’impresa.


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