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La cena di Monti, quella di Silvio e cose forse un po’ più serie.

Creato il 26 dicembre 2011 da Massimoconsorti @massimoconsorti
La cena di Monti, quella di Silvio e cose forse un po’ più serie.In un paese come il nostro, fresco reduce dall’etichetta di puttanaio istituzionalizzato assegnata urbi et orbi dal mondo civile e dagli abitanti del mongolo deserto del Gobi, il fatto che la moglie del presidente del consiglio vada a fare la spesa per la cena di Natale al supermercato è una notizia. Succulenta. Per un momento ci è sembrato di vivere in uno di quei paesi nordici dove i re vanno in bicicletta e le regine acquistano il detersivo per la lavatrice all’hard discount. Diciamolo, non ci siamo abituati. Fino all’altro ieri le mogli dei politici che non andavano a fare la spesa con lo chauffeur e il carabiniere di scorta, si contavano sulle dita di una mano, e anche quelle poche non è detto che la facessero con la carta di credito personale. In compenso ci eravamo abituati a vedere Silvio che, con una ventina di bodyguard appresso, si introduceva da Raisa e acquistava bigiotteria a pacchi (farfalline e piccoli peni pakistani), gadget di una bruttezza unica per le sue cene galanti a base di “Fratello Sole, Sorella Luna”, Crodino e letture tratte da “La monaca di Monza”. La signora Monti è, invece, una donna spiazzante. Va a Roma in treno, prende sottobraccio il marito, gira per Milano in Panda, tende a nascondersi (quasi si vergognasse dell’improvvisa celebrità), e va a fare la spesa al supermercato.  È, insomma, un modello di donna “politically correct” nell’era di Mr. B., dove l’apparire è molto più importante dell’essere e la sirena dell’auto di scorta un vero e proprio must. Questo è il classico esempio di una “non notizia” che assurge a titolo da prima pagina tenendo conto solo del contesto nel quale si svolge e della stampa signorinizzata che impera in Italia, altrove non sarebbe stata presa in considerazione neppure da un mensile di taglio e cucito. Una delle notizie vere, e presa a caso, di questi giorni dedicati al post avvento, è che a causa di una legge dello Stato (la 160/2006) che prevede la rotazione decennale dei magistrati nei diversi settori della giustizia, molti dei pool che si interessavano di sicurezza sul lavoro saranno smantellati, a partire da quello di Torino. Come tutti sanno, il pool di Torino (guidato da quello scassapalle di procuratore che risponde al nome di Raffaele Guariniello) è stato quello che ha raggiunto risultati inimmaginabili fino a qualche anno fa. Dovendo lottare contro il filo-imprenditori Maurizio Sacconi, i magistrati torinesi hanno contribuito alla formulazione di sentenze destinate a fare giurisprudenza nelle quali, per la prima volta, la parola “omicidio” rispetto a una morte sul lavoro, viene adoperata con cognizione di causa e nel pieno rispetto del codice penale vigente. I casi Eternit, e soprattutto quello Thyssen, risuonano ancora negli ambienti confindustriali, come la voce di un destino ineluttabile e ineludibile che prima o poi colpisce chi si rende responsabile di omissioni gravi rispetto alla sicurezza. Mancando pochi giorni alla fine dell’anno, è presumibile che nel 2011 i morti sul lavoro superino di poco i mille e cento, una cifra mostruosa che è sintomatica di come si lavori oggi in un’Italia stretta sì nella morsa della crisi mondiale, ma che continua ad anteporre all’uomo lavoratore, il potere e il fascino del lucro. Sembra che si stia andando verso l’istituzione di una Procura nazionale per la Sicurezza sul lavoro seguendo l’esempio di quella antimafia, ma i giochi sono ancora aperti e le prospettive lontane. Chi non avrebbe mai dato la notizia con la quale abbiamo aperto il post, è Giorgio Bocca. A 91 anni, dopo una breve malattia, se n’è andato ieri a Milano. Non sempre ne abbiamo condiviso le idee, non sempre abbiamo apprezzato la sua prosa tanto asciutta da risultare arida, non sempre i suoi pareri ci hanno trovato entusiasti ma solo perché Bocca partiva sempre da una parola maledetta: “coerenza”. Se una lezione vera, uno degli ultimi giornalisti doc di questo paese di mezze penne ruffiane e di quacquaracquà interi della nostra informazione, ci ha dato, è stata proprio quella della sua onestà intellettuale e della cristallina coerenza di ex combattente di “Giustizia e Libertà”, due parole che hanno significato non solo la formazione partigiana nella quale ha combattuto, ma il senso vero della sua esistenza e del suo lavoro di cronista. Non annoveriamo Giorgio Bocca nei nostri maestri di giornalismo né lo santificheremo come si fa con chi intraprende l’ultimo viaggio senza ritorno anzi, non lo abbiamo mai letto con un entusiasmo particolare ma poi, il 10 agosto del 1982, sulla prima pagina di Repubblica apparve una sua intervista a Carlo Alberto Dalla Chiesa in cui il generale denunciava la profonda solitudine alla quale lo aveva condannato lo stato. Quella intervista, destinata a passare alla storia non solo perché fu l’ultima prima dell’esecuzione ad opera dei corleonesi di Totò Riina del prefetto di Palermo, non fu uno scoop di Bocca ma di Dalla Chiesa stesso che scelse il giornalista di Repubblica e l’”Antitaliano” dell’Espresso per una denuncia alta e forte. Una ragione per questa scelta, in fondo, doveva pur esserci. Nel coccodrillo di ieri sera, il Tg4 di Emilio Fede ha tenuto a sottolineare il fatto che Bocca ha lavorato per Mediaset ma, a nostra memoria, ci risulta che Bocca abbia si lavorato per Rete4 ma quando la rete apparteneva a Rusconi e non a Berlusconi. Voi direte, “questione di lana caprina”. Eh no, questa è sostanza non lana, e poi vale la frase “qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo” (quiz).

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